Strade bianche

La campagna in bianco e nero restituisce memorie polverose e le case misurano il tempo

Testo e foto di Pietro Barberini

Le strade bianche sono quelle della pianura romagnola, segnata da antichi tracciati fluviali o dai rettifili della centuriazione. Contrassegni del tempo che attraversano la storia, avvicinando i Celti alle nostre abitudini.
Carraie e strade campestri dove l’erba cerca di crescere fra i sassi.
Le strade bianche del “mio territorio” di scorribande in bicicletta, non potevo che fotografarle con una Reflex analogica e meccanica, la Contax Rts, che dagli anni Ottanta custodisco gelosamente.
La pellicola è una sorta di strada, dove il bianco appare in negativo e soltanto la stampa riporta a una gamma di grigi che pare una tavolozza, cui attingere ricordi che non hanno perso né l’incisività né il colore.
Il paesaggio appare popolato laddove i confini si muovono incerti,fra pianura alta e ben drenata e le larghe che scontornano i primi ristagni vallivi. Verso un appiattito orizzonte la terra è dura e vi crescono erbe come la bonaga. Questi cespugli dalle cui radici i Romani traevano decotti purificatori, hanno dato il nome di bunagher a una terra lunga e arida, difficile da redimere a colpi di zappa.
Contadini senza terra hanno lavorato e dissodato, mulinando braccia e attrezzi, per magri salari. Venivano dalle Ville e dai paesi vicini in bicicletta, percorrendo stradelli che lasciavano una polvere biancastra sulle gomme. Le biciclette restavano in lunga schiera rovesciate con le ruote alzate verso il cielo, ai bordi dei fossi, fino al termine della giornata. Dalla strada che costeggia il canale Naviglio, oltre Villa Prati, il cui toponimo la dice lunga sulla natura dei luoghi, si stacca una strada che porta alla via Aguta (documentata in un’antica carta del Quattrocento),il suo nome è viazza, quasi a dire “stradaccia” ovvero “ricordo di una via”. È stata asfaltata soltanto dopo gli anni Ottanta e bastavano poche centinaia di metri per ricoprire tutto di bianco; ma lo sfrigolio sotto il battistrada, i piccoli schiocchi, il tintinnio del brecciolino sul metallo del telaio producevano un suono inconfondibile per il ciclista che doveva procedere con destrezza per non scivolare. Chissà se quei dolci rumori sono stati registrati. Se poi arrivava una macchina, finivi dentro una nuvola, prendendo una “tabaccata di polvere” che, da tempo, aveva imbiancato le siepi, rendendo uniforme il colore degli arbusti e spargendo un tipico odore di secco,e diventava anche sinonimo di velocità: “ti ho dato la polvere!”.
Il piano inclinato di quella campagna vivente è percorso dal canale Naviglio Zanelli, una volta silente via d’acqua che azionava macine di mulini e consentiva trasporti di cereali e materiali da costruzione. Diritto da Faenza a Bagnacavallo, quando “marca” il cardo faentino, il corso d’acqua si perde a nord di Bagnacavallo in ampie anse che tendono a seguire la linea di massima pendenza, prima di finire direttamente nel fiume Reno, antico corso del Po di Primaro.
La pellicola in bianco e nero si è trasformata in strada bianca distesa fra i coltivi, srotolata sul piano di quella tavola ricca di vigne e frutteti. Il “rullino” è ormai scomparso ed anche il biancore della ghiaia appare sempre più raramente fra i campi o dietro un vecchio mulino.
L’asfalto costa meno, una mano di bitume cancella manutenzione e paghe di vecchi stradini.

Non c’è più il saper fare di un mestiere che forse è iniziato con i Romani che costruirono la via Emilia, dai basoli costeggiati da ampie banchine in terra battuta e ghiaia fine; il macadam è relegato a passate delibere comunali sui lavori di manutenzione stradale.
C’è anche una canzone di Paolo Conte che ricorda il macadam e queste fotografie “analogiche” o, meglio, lontane dalla logica ammansita dalle mode e dai modi.
Il paesaggio centuriato riappariva come calco di un sistema di drenaggio delle terre: l’appoderamento poteva proseguire se le acque scolavano, altrimenti si passava oltre. C’era tutta la via Emilia da seguire, da Rimini a Piacenza, ma la centuriazione lughese e faentina riesce ancora a far vivere le dimensioni vastissime di quell’opera. I duemila anni di storia sono impressi nel paesaggio e basta dare un’occhiata a una carta particolareggiata per vedere riaffiorare le “quadre centuriali” nelle dimensioni di una cinquantina di ettari. L’orientamento dei campi, al ter, le terre, come si dice nel dialetto della bassa, resta quello di allora, quando le viti maritate ai sostegni vivi dell’acero campestre e del gelso dividevano le “piantate” e, fra un filare e l’altro, si coltivava il grano. Ai lati, le “cavedagne”, al cavdagn, percorse dai tipici carri agricoli romagnoli durante i lavori.
Le case seguono queste misure e vengono edificate all’angolo del podere con la facciata rivolta a sud e il lato opposto più fresco dove erano collocate le dispense. La parte che dava sull’aia era illuminata e permetteva di tenere sott’occhio, dalla stanza da letto al primo piano, tutto il podere. La parte più stretta della casa era rivolta ad est e ad ovest dove spesso si trovava la stalla con la buca del letame.
Invece il filare di vite aveva un andamento meridiano, così il sole nel suo cammino lo colpiva da ambo i lati, da oriente ad occidente. La geometria dominava incontrastata ed era il sole a condizionare quell’organizzazione, riscaldando le stanze della casa e facendo maturare l’uva.
Con la meccanizzazione e le nuove colture si sono dilatate le dimensioni e le carte IGM degli anni Ottanta non trovano più riscontro nella topografia satellitare. Restano le strade, mentre sono spariti, in diversi casi, tanti rettangolini neri che simboleggiavano le case coloniche, alcune delle quali segnate, ad esempio,come “ca’ Longanesi, ca’ Liverani, ecc.”. Molti rustici sono stati trasformati in abitazioni e in quelle campagne animate da nuovi rumori si sono trasferite famiglie provenienti dalle città vicine che hanno soltanto un giardino attorno a casa.
Ormai il lavoro agricolo non richiede più la presenza “sul campo” dell’agricoltore, che trova i suoi attrezzi in un capannone, ultimo presidio che resiste al tempo.

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