In aula i consulenti della difesa: ecco perché Cagnoni non ha ucciso la moglie

Ventitreesima udienza / L’esperto di dattiloscopia smentisce che le impronte sulla scena del crimine siano valide per un confronto e i medici legali trovano dna di un altro uomo sotto tutte le dieci unghie di Giulia che sarebbe dovuto alla difesa da un tentativo di strangolamento. Nella seconda metà di giugno attesa la sentenza della corte d’assise

Qui la cronaca delle udienze precedenti

Le impronte sulla scena del crimine non sono abbastanza chiare per essere attribuite, sotto tutte le dieci unghie delle mani della vittima c’è un dna maschile ma in nessuna compare quello del marito imputato per uxoricidio, il contenuto dello stomaco del cadavere della donna dice che il momento del decesso va spostato in avanti di qualche ora rispetto all’ipotesi dell’accusa e a quel punto il coniuge ha un alibi. È lo scenario dipinto in sei ore di deposizione da quattro consulenti tecnici del 53enne Matteo Cagnoni, a processo davanti alla corte d’assise di Ravenna con l’accusa di aver ammazzato la 39enne moglie Giulia Ballestri il 16 settembre 2016. Dopo mesi passati fornendo in buona sostanza solo testimonianze che dipingevano il dermatologo come un marito amorevole incapace di arrivare all’omicidio, alla ventitreesima udienza celebrata stamani 20 aprile la difesa (avvocati Giovanni Trombini e Francesco D’Alaiti) ha messo in campo i pezzi grossi provando a costruire uno scenario alternativo in cui non si possa affermare la colpevolezza di Cagnoni oltre ogni ragionevole dubbio.

IMPRONTE
Si è detto sin dal principio che la prova regina di questo processo sono le due impronte rilevate dagli inquirenti nello scantinato della villa disabitata di via Padre Genocchi, di proprietà della famiglia dell’imputato, in cui si è consumato il massacro della donna. Due impronte palmari con il sangue della vittima, una sul muro e una su un frigorifero. Per la polizia scientifica e per il consulente di parte della famiglia Ballestri sono di Cagnoni senza dubbio. Invece per Andrea Tommaso Mondelli, poliziotto della scientifica in pensione incaricato dal collegio difensivo come consulate di parte, non si può affatto dire di chi siano perché non presenterebbero le caratteristiche necessarie per poter essere confrontate con quelle di un sospettato. E qui tocca fare una digressione nei tecnicismi e tirare fuori le minuzie: così la dattiloscopia chiama le peculiarità che contraddistinguono ogni impronta e la rendono unica e confrontabile con altre. Vanno individuate dall’operatore dattiloscopista. La giurisprudenza italiana stabilisce che la corrispondenza di 16 punti fra due impronte consente una base statistica talmente elevata da considerare quelle due impronte appartenenti alla stessa persona perché si è nell’ordine di un caso ogni 4-5 miliardi di individui. Si tratta comunque di una convenzione italiana per alzare l’asticella della qualità: tanto per dire, nella vicina Svizzera ci si ferma a otto. Nella palmare muro il consulente di parte civile ha individuato 26 minuzie corrispondenti e la scientifica 20 (16 sono in comune), nella palmare frigo la parte civile ne ha individuate 20 e la polizia 28 (16 in comune). Le due parti hanno proceduto ognuna con il proprio percorso autonomo. Mondelli ribalta il tavolo e dice di non vedere affatto tutte quelle minuzie. E si spinge quindi a contraddire anche l’unica voce terza finora coinvolta, il perito nominato dal giudice durante le indagini preliminari: a suo giudizio c’erano almeno 30 e 20 minuzie qualitativamente valide. Insomma, è vero che tutti sono concordi nel ritenere che la valutazione ultima spetti all’occhio dell’operatore e quindi la dattiloscopia non sia la macchina della verità a cui far masticare le impronte per ottenere la risposta ma in questo caso  gli schieramenti sono due contro uno e con i primi va schierato in un certo senso anche l’unico che non è di parte. Le domande della procura (pm Cristina D’Aniello) sono poi servite a sottolineare che la strumentazione usata da Mondelli non ha lo stesso riconoscimento qualitativo di quella del gabinetto di polizia scientifica (ma questo vale anche per quanto riguarda il perito del gip). Resta poi la perplessità sul perché un elemento così dirompente sia stato conservato finora mentre avrebbe potuto essere una carta importante per la richiesta di scarcerazione così tanto ambita e sempre respinta.

IL DNA IGNOTO
L’autopsia ha permesso di rilevare la presenza di tessuto biologico sotto le unghie della vittima «in quantità non residuale ma elevata», hanno affermato in aula i medici legali Adriano Tagliabracci e Chiara Turchi dell’università politecnica delle Marche. Di quel tessuto non è possibile stabilire la tipologia ma il dna sì ed è lo stesso in tutte le dieci dita, è maschile ma non di Cagnoni. «Data la quantità così sostenuta si può dire che derivi da un contatto fisico violento e per esperienza possiamo dire che sotto le unghie di una persona viva non permane più di sei-sette ore», sostengono i consulenti. Insomma, messa così potrebbe essere la firma del killer. Per gli avvocati dell’imputato sarebbe l’esito di un tentativo di difesa della donna durante l’aggressione. Magari mentre tentava di liberarsi dalla morsa di qualcuno che provava a strangolarla: «Sul collo ci sono dei segni compatibili con un tentativo di strangolamento, segni molto grandi lasciati da qualcuno che forse indossava un paio di guanti. Ci stupisce che durante l’autopsia non sia stata prestata attenzione a questo dettaglio». Per la procura quelli non sono segni da strangolamento ma forse la presa di chi ha fatto sbattere il volto di Giulia più volte contro il muro per l’aggressione finale, una dinamica su cui concordano tutte le parti. E il sostituto procuratore non si è fatto sfuggire l’occasione di sottolineare che nemmeno il consulente di parte presente all’esame autoptico ha chiesto accertamenti su quei lividi. Per l’accusa il dna sotto le unghie è il risultato di una energica azione di contatto tra le dita della donna e un’altra persona, magari una carezza giocosa alla testa di un bambino al mattino a scuola (il pm ha utilizzato la parola «grattino»). E non c’è quello di Cagnoni perché la dinamica ipotizzata prevede l’inizio dell’aggressione con un bastone e quindi una distanza sufficiente per impedire alle mani di Giulia di raggiungere il corpo del marito prima di perdere conoscenza. L’avvocato Giovanni Scudellari che assiste i familiari della vittima, forte dell’esperienza accumulata in 28 corti d’assise, ha chiesto come mai le dita di Giulia non fossero affatto rovinate come invece spesso accade per chi tenta di difendersi da uno strangolamento. Una domanda a cui i medici non hanno forniti dettagli.

IL CAFFE NELLO STOMACO
Per fissare l’orario della morte uno degli elementi cardine è stato il contenuto ritrovato nello stomaco del cadavere. I 2,5 milligrammi di caffeina portano i consulenti tecnici della procura (i medici legali Franco Tagliaro e Federica Bortolotti dell’università di Verona) a fissare il decesso della 39enne entro due o tre ore a partire dalle 9 del 16 settembre 2016, quindi in un intervallo di tempo compatibile con la permanenza del marito Matteo Cagnoni nella casa abbandonata di via Padre Genocchi a Ravenna (tra le 9.15 e le 11.06, come mostrano le telecamere in strada) dove due giorni dopo è stato trovato il corpo. Quella mattina i due coniugi fecero colazione in una pasticceria di viale Newton dove rimasero tra le 8.23 e le 9.07 (sono filmati dalle telecamere di videosorveglianza) e la donna ordinò un caffè. Alle 9.15 scendono dall’auto in via Genocchi per entrare nella casa a vedere i quadri da vendere. Calcolando i tempi con cui si svuota lo stomaco, il residuo di caffeina presente serve ai medici per arrivare all’orario della morte. Però la dottoressa Elia Del Borrello giunge a conclusioni diverse: «Il volume e la composizione del contenuto trovato nello stomaco e la concentrazione di caffeina confrontata con quella nel sangue ci dicono che non può trattarsi solo di quel caffè preso a Le Plaisir ma deve esserci stata anche un’assunzione successiva di qualche bevanda che contenesse caffeina e di qualche altro prodotto». Acqua al mulino di Cagnoni che sostiene di essere uscito dalla villa in compagnia della moglie e di averla rivista viva sotto casa in via Bruno verso le 12.15. Dopo quell’orario la donna dovrebbe aver ingerito qualcos’altro e poi essere tornata nella villa per ragioni non ben spiegabili e lì aver trovato qualcuno che l’ha uccisa. E alle 13 il marito va a prendere i figli a scuola e con loro parte per Firenze.

IL CALENDARIO VERSO LA SENTENZA
Il processo si avvia alla fase finale. L’istruttoria dibattimentale dovrebbe concludersi l’11 maggio: nella prossima udienza del 4 infatti verranno completate le audizioni dei consulenti tecnici della difesa e altri testi minori, in quella successiva dovrebbero essere citati eventuali altri testimoni la cui rilevanza è emersa nel corso del procedimento. A quel punto si andrà a metà giugno per concentrare in una settimana la requisitoria del pm, le discussioni delle parti civili e l’arringa della difesa. Poi la camera di consiglio.

 

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