Omicidio Minguzzi, i familiari: «Gli indizi di colpevolezza c’erano già 35 anni fa»

Udienza 16 / Gli avvocati della madre, del fratello e della sorella del 21enne ammazzato ad Alfonsine nel 1987 parlano per tre ore in corte d’assise per evidenziare gli elementi a carico dei tre imputati e le difficoltà incontrate dalle indagini

3«Un cold case è sempre frutto di un’indagine imperfetta». Sono le parole scelte dall’avvocato Luca Canella per dire che l’inchiesta del 1987 sull’omicidio di Pier Paolo Minguzzi si porta dietro molte ombre. Il fascicolo venne archiviato nel 1996, è stato riaperto nel 2018 da altri magistrati e la sentenza arriverà il 22 giugno quando saranno passati 35 anni dal ritrovamento del cadavere del ventunenne di Alfonsine. L’intervento di Canella ha aperto la sedicesima udienza, ieri 8 giugno, in corte d’assise a Ravenna dove rappresenta la parte civile Rosanna Liverani, la madre del giovane ucciso in un rapimento per estorsione (qui le richieste di risarcimenti).

Dopo Canella hanno preso la parola anche gli avvocati degli altri familiari costituitisi parti civili, Paolo Cristofori per la sorella Anna Maria e Elisa Fabbri per il fratello Gian Carlo. In tutto tre ore di intervento, con alcuni argomenti toccati da tutti, al punto da portare il presidente della corte Michele Leoni a chiedere di evitare ripetizioni di cose già note ai giudici. I tre legali hanno ribadito la lunga lista di indizi gravi, precisi e concordanti – usciti da un anno di dibattimento – che a loro giudizio devono quindi portare alla condanna dei tre imputati: due ex carabinieri della stazione di Alfonsine e un amico idraulico dello stesso paese, nell’ordine il 58enne Orazio Tasca, il 59enne Angelo Del Dotto e il 66enne Alfredo Tarroni (la procura ha chiesto tre ergastoli).

Omicidio MinguzziMa tra le righe degli interventi del pool di avvocati c’è anche la volontà di dare voce alla comprensibile frustrazione di una famiglia: gli indizi in aula oggi sono gli stessi che già si potevano individuare nei primi momenti dopo l’omicidio. Indizi che diventarono ancora più forti a luglio del 1987, tre mesi dopo la morte di Minguzzi, quando gli odierni imputati furono arrestati dopo aver tentato un’altra estorsione e aver ucciso un carabiniere impegnato nell’imboscata per l’arresto (tutti hanno scontato pene ultraventennali).

«Gli elementi comuni tra le due vicende – ha detto ancora Canella – dovevano bastare per arrestare i tre e si sarebbe evitato il secondo omicidio. Invece non si fece nulla. E non può che restare impressa una frase pronunciata da un brigadiere ascoltato tra i testimoni. Antonio Di Munno venne trasferito da Comacchio anche per seguire questa vicenda ma quando insisteva con i superiori per prendere iniziative investigative si sente rispondere che “la merda più si gira e più puzza”».

Non si può fare a meno di domandarsi perché si sia arrivati solo ora a celebrare un processo per dare un nome a chi ha ucciso Pier Paolo Minguzzi. Non si può fare a meno di nutrire il dubbio di una volontà di non fare luce: «Pensate a cosa è stato detto in aula – ha detto ancora Canella ai giudici – ma soprattutto sappiate ascoltare il silenzio di chi è venuto a testimoniare».

5Su questi aspetti è stata l’avvocata Fabbri a ricordare alla corte la figura di Vincenzo Tallarico, 66enne carabiniere congedatosi con il grado di capitano assegnato al comando della compagnia di Ravenna per sostituire Antonio Rocco a fine del 198: «Non ci fu un passaggio di consegne fra i due ed è incredibile. Si era deciso di congelare l’indagine per non rischiare di far sapere che Tasca aveva potuto continuare a delinquere e per questo aveva perso la vita un altro militare». E c’è un affondo anche per le parole che il magistrato Gianluca Chiapponi, pm titolare del fascicolo all’epoca: «Al funerale del carabiniere Vetrano disse ai familiari di Minguzzi che i tre arrestati non c’entravano nulla con il loro caso».

Anche l’avvocato Cristofori si chiede perché non si volle andare avanti e fornisce la sua tesi: «Non ho mai pensato a complotti o poteri occulti. Dopo la sparatoria di luglio 1987, i responsabili delle indagini, carabinieri e magistrati, si resero conto di aver sottovalutato gli indizi che già erano emersi nei mesi precedenti e quindi, consapevoli che la loro superficialità aveva fatto sì che oltre a Pier Paolo un altro carabiniere avesse perso la vita, hanno preferito non andare oltre tanto i tre avrebbero pagato per l’arresto in flagranza nel secondo episodio».

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I familiari di Pier Paolo Minguzzi: da sinistra la sorella, la madre e il fratello

Tra le parti civili figura anche il ministero della Difesa. L’avvocata Uliana Casali dell’Avvocatura dello Stato ha tenuto la parola per dieci minuti e non ha usato mezzi termini: «Chi sbaglia in divisa sbaglia due volte perché distrugge il rapporto di fiducia che le istituzioni devono avere con la collettività. Non si può rispettare un’istituzione se l’istituzione non opera degnamente. Gli imputati erano mossi “da una sete inarrestabile di denaro” come ha detto il pubblico ministero e non c’è nulla di più abietto e futile».

Anche il Nuovo sindacato carabinieri (Nsc) è parte civile: «Mai in un processo penale come questo si è assistita a una attività ostruzionistica, se non addirittura di occultamento, che fa parte dei motivi per cui ci sono voluti 35 anni per arrivare al processo», ha detto l’avvocata Maria Grazia Russo. Che ha toccato la questione della perizia fonica con il parere del consulente della corte a favore degli imputati: «È una sola prova scientifica che va in direzione opposta rispetto a una pluralità di indizi che vanno unanimemente verso la colpevolezza. E la prova scientifica non è oro colato o una certezza granitica».

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