Omicidio Minguzzi: i pezzi mancanti nel fascicolo d’indagine del 1987

Gli avvocati della famiglia non hanno trovato le foto dell’autopsia ma c’è l’elenco fatto dal medico legale, gli investigatori della polizia hanno messo in fila i mancati accertamenti sulle segnalazioni dell’epoca

15 FaldoniSul fascicolo impolverato, nell’archivio del tribunale di Ravenna, c’era scritto “Atti relativi alla morte di Pier Paolo Minguzzi”. È la prima cosa che ha lasciato perplessi i legali della famiglia del ventunenne quando hanno fatto un accesso agli atti nel 2016: «Ci aspettavamo di trovare scritto “omicidio”, visto che di questo si tratta e non è mai stato in dubbio». Il rampollo di una famiglia di imprenditori di Alfonsine è stato rapito per un’estorsione nell’aprile 1987 e trovato morto dopo dieci giorni. I colpevoli non hanno ancora un nome e solo a maggio del 2021, a distanza di 34 anni, si è arrivati a un processo (lunedì 8 novembre la decima udienza, sentenza prevista per febbraio).

Ma ben altre anomalie sarebbero emerse oltre il frontespizio di quel faldone. «Chiamarlo fascicolo forse è un’esagerazione ottimistica – ricordano gli avvocati Luca Canella, Paolo Cristofori e Elisa Fabbri del foro di Ferrara che assistono rispettivamente la madre, la sorella e il fratello, parti civili in corte d’assise a Ravenna –. Assomigliava di più a un ammasso disordinato di fogli buttati in uno scantinato, senza indice e spesso non originali. Insomma, aveva l’aria di qualcosa molto rimaneggiato». Palesi alcune mancanze: «Ad esempio non ci sono fotografie dell’autopsia eppure c’è la richiesta di liquidazione del compenso per il medico legale con l’elenco di quante foto aveva scattato».

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La sorella e la madre di Pier Paolo Minguzzi

L’archiviazione del caso per la procura arrivò nel 1996: in nove anni l’indagine sul decesso dello studente di Agraria, carabiniere ausiliario in servizio di leva alla caserma di Mesola (Ferrara), rimase sempre a carico di ignoti. E questo nonostante a luglio del 1987, meno di tre mesi dopo il ritrovamento del cadavere, nella stessa Alfonsine si sia verificata una vicenda con molti punti in comune. Evidentemente “Indagato come atto dovuto” – espressione che ormai ricorre come un mantra nelle dichiarazioni della magistratura per spiegare la necessità di agire su sospettati anche a loro tutela – all’epoca non era ancora un concetto assimilato.

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Al centro, con la mascherina nera, Angelo Del Dotto. Alla sua destra l’avvocato Luca Silenzi

Dalle scartoffie recuperate cinque anni fa è partita la missione dei familiari per ottenere la riapertura del caso, per avere giustizia. Un investigatore privato è stato incaricato di svolgere indagini difensive – il secondo detective con questo compito, ma del primo non risultano tracce nell’elenco di chi ha consultato le carte in tribunale – e ne è uscito un esposto depo­sitato in procura a Natale 2017.

Per riaprire il caso era necessario portare all’autorità giudiziaria indizi non emersi prima: «Siamo convinti che qualcuno dal Ferrarese abbia dato una mano agli autori – spiegano gli avvocati –. Ci ha colpito la posizione di un commilitone di Pier Paolo nella caserma di Mesola, l’unico con una conoscenza più amichevole di Minguzzi e l’unico che fornì dettagli molto particolareggiati su cosa faceva la notte del rapimento, come se dovesse fornire un alibi». La fidanzata dell’epoca di quel collega, riascoltata, modifica la versione, l’alibi vacilla ed ecco l’appiglio per chiamare gli inquirenti a un riesame.

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In primo piano a sinistra Alfredo Tarroni, sullo sfondo Angelo Del Dotto: sono due dei tre imputati Assente Orazio Tasca

Nell’elenco delle incongruenze, gli avvocati di parte civile ne segnalano un’altra: una relazione del Cis dei carabinieri, il centro investigazioni scientifiche di Roma, firmata dal direttore Sergio Bonafiglia: «Si afferma che i calchi delle impronte rilevati nel caso­lare di Vaccolino, dove venne portato Pier Paolo dopo il rapimento, non corrispondono alle suole dei cosiddetti “stivaletti al cromo” in dotazione ai carabinieri. Però non si trova un solo verbale in cui si dica che il Cis ha ricevuto un paio di stivaletti per la comparazione».

L’esposto della famiglia arriva nelle mani del procu­ratore capo Alessandro Mancini – da gennaio 2021 pg a L’Aquila – e della sostituta procuratrice Marilù Gattelli. Il caso viene riaperto con quattro nomi nel registro degli indagati: quel commilitone di Mesola, poi stralciato dall’indagine, e i tre che invece ora sono alla sbarra. Due ex carabinieri della stazione di Alfonsine e un loro amico idraulico dello stesso paese: rispettivamente il 57enne Orazio Tasca di Gela ma residente a Pavia, il 58enne Angelo Del Dotto di Ascoli Piceno e il 65enne Alfredo Tarroni. Nel 1988 i tre furono condannati a pene tra ventidue e venticinque anni di carcere per l’altro omicidio del luglio 1987. Particolarmente ficcante il commento lapidario del procuratore alla chiusura delle indagini nell’estate 2019: «Quante bande di sequestratori potevano esserci ad Alfonsine negli anni ’80?».

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Gian Carlo Minguzzi, fratello della vittima

Dalle serie tv abbiamo imparato a chiamarli cold case. Casi freddi, alla lettera. Delitti irrisolti per cui la legge non prevede prescrizione (in provincia di Ravenna ce ne sono altri 16 negli ultimi cinquant’anni). Ma questo è un cold case diverso dagli altri. Qui non ci sono nuovi indizi scovati grazie a tecnologie inesistenti, o ancora da affinare, al tempo dei fatti.

Ad esempio, non è stato d’aiuto il dna: sotto le unghie della salma riesumata a primavera 2018 non sono stati individuati frammenti analizzabili (ipotizzando che Minguzzi avesse lottato contro i rapitori e li avesse graffiati). È vero che gli accusati nel frattempo sono diventati proprietari di telefonini, inesistenti all’epoca: sono stati intercettati – ottenendo materiale dalle conversazioni sollecitate dalla convocazione per essere interrogati durante le indagini – ma nulla di clamoroso si è aggiunto. «Ma vaffanculo, non lo trovano più se non c’è quello che si pente che sò stato io», è la frase più significativa che uno degli imputati pronuncia a voce alta parlando da solo mentre è su un furgone al lavoro.

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Il presidente Michele Leoni e la Rosanna Liveranni, madre di Pier Paolo Minguzzi

La lettura delle quasi settanta pagine di sintesi investigativa della polizia (squadra mobile di Ravenna e seconda divisione dello Sco di Roma, dirette da Claudio Cagnini e Alfredo Fabbrocini) lascia una sensazione: gli accertamenti tecnici che sono stati fatti ora si potevano fare anche 34 anni fa. Magari gli strumenti sarebbero stati meno affinati, ma resta il fatto che certe segnalazioni non vennero approfondite, lo scrive ora la polizia, e alcune indagini non vennero proprie fatte. Una su tutte, la perizia fonica con la comparazione tra le voci delle telefonate estorsive dei due casi: mai fatta (qui l’audio di una).

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Marilù Gattelli rappresenta l’accusa

Ma non è tutto qui. Nella sintesi degli investigatori incaricato nel 2018 c’è spazio per elencare i tanti avvistamenti dell’auto di uno degli imputati – una inconfondibile Citroen Cx Pallas nera, detta “lo squalo” – nelle zone delle valli di Comacchio, nei pressi del casolare dove il sequestrato fu tenuto e dove fu trovato il cadavere. Un residente di quelle parti disse di averla vista il 12 o il 13 aprile del 1987, a tarda sera, in mezzo a un campo di erba medica. Vennero fatti accertamenti per stabilire dov’era quelle due sere il proprietario dello Squalo? No. Molti altri indizi sono emersi nel corso del dibattimento finora celebrato.

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