Il giro del mondo in bici risale l’Africa: ora in Ghana, a casa nel 2020

I fratelli Giovanni e Francesco Gondolini sono in viaggio da anni e ora puntano le ruote verso Ravenna ma c’è ancora tanta strada da fare. Pubblichiamo il loro racconto da Tanzania e Malawi

Prosegue ora sulle strade del Ghana l’avventura di Giovanni Gondolini, il cicloturista che nel 2013 è partito da Ravenna per completare il giro del mondo in bicicletta. Il ravennate è in compagnia del fratello Francesco che lo ha raggiunto in Sudamerica nel 2017 diventando il suo compagno di viaggio dopo i primi quattro anni passati pedalando accanto all’amico Marco Meini che si è fermato in Canada dove ora convive. Giovanni è in viaggio da oltre 2.200 giorni, ha attraversato 54 Paesi per un totale di quasi 80mila km percorsi, Francesco invece è al 17esimo paese e 27mila km.

Ravenna&Dintorni ha raccontato il loro viaggio sin dal principio, ospitando sulle nostre pagine online o del settimanale il diario di viaggio del Magio Bike Tour (Magio è il nome con cui è nato dalla contrazione di Marco e Giovanni). Ora i due fratelli ci scrivono da Accra, capitale del Ghana: ammettono che cominciano a sentire la voglia di casa e ci aggiornano sugli spostamenti dell’ultimo periodo. Dopo Uganda e Ruanda – molto sterrato su infinite colline e laghi – i due hanno sorvolato la Repubblica democratica del Congo – troppo rischioso attraversarla via terra a causa di guerriglia, instabilità politica e focolai di Ebola – con un piccolo aereo bimotore, così piccolo che le bici non sono riuscite ad entrare in stiva e sono state trasportate a parte. Sui pedali nel Congo francese, poi Camerun sulla costa occidentale. Non è stato possibile ottenere il visto per la Nigeria e così sono ripartiti dal Benin, poi Togo e Ghana. Le rotta ora prevede Costa d’Avorio e Guinea. Confermato il rientro in Italia verso i primi mesi del 2020. Di seguito pubblichiamo due resoconti firmati da Giovanni che parlano di Malawi e Tanzania.

Tanzania, voglia di tornarci
Nelle alte piantagioni di tè ho ritrovato l’armonia. Il verde intenso di questo fantastico cespuglio ha potere rilassante mentre lo ammiri a perdita d’occhio su colline dolci. E poi lo bevi, il dolce diventa amaro e il verde diventa oro in tazza.
Nelle terre basse del Mikumi National park ho percepito l’energia della natura come un brivido nella schiena. Il giallo maculato delle giraffe, il bianco e nero striato delle zebre, il grigio increspato degli elefanti e l’ocra vellutato delle gazzelle sono alcuni colori di quella bellezza unica che è un animale quando è in libertà.
Nei vicoli di Stone Town ho apprezzato la civiltà araba nel fascino della sua architettura e nel misticismo delle sue moschee. Qui l’uomo arabo ha sposato l’Africa nera e il risultato è un mercato che sa di Marrakech e Nairobi allo stesso tempo. Stone Town è vitalità.
Nelle bianche spiagge di Zanzibar ho goduto della pigra pace e della eterna malinconia che è l’oceano protetto dalla barriera corallina. A Zanzibar il tempo si ferma perché nell’irrequieto far festa e nel dolce far niente confondiamo spesso l’alba con il tramonto.
Nei pendii del Kilimangiaro ho sentito la forza del mito, ho captato come un monte possa diventare leggenda e un po’ di neve in Africa un incomprensibile miraggio. Ammirando questo vulcano spento, solitario come un uomo nei suoi pensieri, ho provato prima nostalgia e poi rispetto, e il mito di questo Monte quasi Dio è giunto fino a me.
Questa è la Tanzania che ho intravisto, poco a dire il vero per affermare di conoscerla, abbastanza per aver voglia di tornarci.

Noi muzungo sul lago Malawi
Conrad nella “Linea d’ombra” scriveva quanto fosse dolce stare in mare quando sono altri a far la direzione. Così anche noi affaticati dalla responsabilità sul dove e il come indirizzare le nostre ruote, ci siamo fatti ammaliare dall’Ilala, il traghetto merci e passeggeri del lago Malawi. Il sole è sorto da poche ore oltre le colline mozambicane a est del lago, quando noi viandanti bianchi ci mescoliamo alle genti del luogo e alle loro strabordanti merci sul molo di Monkey Bay. I motori dell’Ilala sono già accesi e una densa cappa di fumo nera oscura a tratti il cielo ostinatamente azzurro. Il capitano suona l’ultima triplice sirena e siamo tutti a bordo. A noi stranieri è dato comprare solo biglietti di prima classe e così finiamo nel ponte più alto, quasi troneggiando la fiumana di gente dei ponti bassi. Come nel Titanic, in basso, le classi più popolari, ricche di colori e odori, tra galline e maiali, tra cibo in sacche di tela grezza e bambini a tracolla di madri instancabili. Noi ricchi “muzungo” in alto, al fresco della brezza del lago, confortati da un cameriere personale e da tutta la ingiusta disparità del mondo.
Le bici assicurate affianco a noi guardano la riva allontanarsi e rifiatano. Ci sembrava che per capire meglio il Malawi bisognasse vivere questo lago gigante. Da 70 anni l’Ilala solca le sue acque spesso agitate e ancora oggi rimane uno dei mezzi più sicuri per raggiungere alcuni villaggi remoti. Penso a Livingstone che si prese per primo il merito di scoprire questo lago e con il supporto della Scozia decise di cristianizzare l’area, scelta discutibile, ma anche di porre un freno alla tratta degli schiavi che dal centro Africa facevano rotta verso il Mozambico, scelta questa meritevole.
Il lago è ancora il fulcro e l’economia del paese. Centinaia di piccole canoe di pescatori immergono le reti notte e giorno e nell’aria quasi ovunque si respira l’inconfondibile odore di pesce che si essicca al sole. Io uomo di terra soffro il forte rullare del traghetto, il lago non è calmo e come un mare incute timore. Due notti passiamo a bordo, dormendo all’addiaccio sotto un bel cielo di stelle mentre l’Africa ci scorre accanto mai silenziosa, mai scontata, mai facile.
La dolce monotonia della navigazione è spezzata solo dal fermo in ancora vicino ai villaggi. Il traghetto ha troppo pescaggio per attraccare, così rimanendo al largo viene prese d’assalto dalle canoe, in un trasbordo singolare da pirati di mare. Dopo ore di navigazione la noia o forse la curiosità vince le barriere di classe e così loro salgono da noi e noi scendiamo da loro, ai ponti bassi dove è risaputo esserci il cibo migliore senza tanti inchini e con un fondo di sincerità in più.
Come sempre mi domando per quanto tempo ancora noi bianchi occuperemo con la forza dei dollari il ponte alto e privilegiato dell’Africa. Non ho risposta ma ricordo con cinismo la immensa verità del Titanic: se la nave affonda, affondiamo tutti, ricchi e poveri.

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