Affreschi: la scuola riminese a Ravenna

Al Mar la ricostruzione in 3D di una chiesa distrutta nel ‘44 e dei suoi cicli di dipinti. Ma la mano non era quella di Pietro

Pietro da Rimini, “Crocifissione” (particolare), 1322-1323 circa, frammento, Ravenna, Museo Nazionale, già chiesa di Santa Chiara

Gli addii sono talvolta più certi dei nuovi incontri: mentre è difficile individuare quale sarà il destino del Mar di Ravenna, quali le future linee programmatiche e chi lo dirigerà, rimane la certezza delle belle mostre che chiudono questa stagione. Le ultime esposizioni ci regalano un itinerario nell’arte contemporanea e un complesso ma affascinante percorso fra immagini fotografiche, ricostruzioni virtuali, dipinti per confronto, disegni e testimonianze registrate sul tema della Basilica di Santa Maria in Porto Fuori, distrutta dai bombardamenti del 1944. Quest’ultima mostra è stata costruita con intelligenza da Alessandro Volpe, docente di Storia dell’Arte medievale al Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna, che si è avvalso di collaborazioni su piani diversi per re-immaginare ciò che è perduto per sempre e per studiare le testimonianze del passato remoto e prossimo sull’edificio, la sua storia, i cicli decorativi che l’ornavano e la visione – fedele e infedele – di quanti in passato fra storici dell’arte e artisti ne hanno dato memorie visive.
L’operazione nasce da una ferita non rimarginabile: la basilica scomparve infatti in meno di 45 minuti in una mattina invernale quando 12 bombe da 500 libbre fecero scempio delle mura e dell’intero ciclo decorativo trecentesco che ornava gli interni. A questa prima distruzione seguì in una notte del settembre 1993 il furto su commissione dei 9 lacerti salvati dalle macerie, che vennero trafugati e mai più ritrovati.
Poche righe per la fine di un monumento costruito probabilmente nell’XI secolo e rimodernato in modo deciso nel periodo gotico: al 1314 risalivano l’allargamento della chiesa, la sostituzione del soffitto con uno nuovo a carena, la realizzazione delle tre abisidi e di un coro sopraelevato, mentre a pochi anni dopo (1329-33) si doveva il ciclo decorativo ad affresco nelle absidi, nell’arco trionfale e nelle superfici superiori della navata centrale. Si trattava di un ciclo complesso che presentava scene sacre come il “Giudizio universale” e la “Morte della Vergine”, episodi della vita di santi – “Matteo che risana gli storpi”, “Pietro peccatore che guarisce gli ammalati” – figure di santi e sante ma anche personaggi contemporanei da indentificarsi probabilmente nel signore della città Ostasio da Polenta e nel vescovo Rinaldo da Concorezzo. Fulcro del ciclo era la descrizione delle Storie dell’Anticristo – dalla presa di potere alla sua decapitazione per mano dell’arcangelo Mi­chele – la cui realizzazione fu indirizzata dalla situazione politica contestuale: in un momento in cui Ostasio sceglieva di appoggiare papa Giovanni XXII e il suo progetto di controllo sulle Romagne, la morte dell’Anticristo nel ciclo portuense presentava come realtà predestinata la fine del grande nemico, l’imperatore Ludovico il Bavaro. Nel giro di pochi anni, il destino figurato nelle immagini veniva superato dalla realtà della sconfitta pontificia: i cicli dipinti rimanevano imperscrutabili come la volontà divina.
Per la loro realizzazione venne sicuramente chiamato un maestro della scuola riminese, identificato tradizionalmente con Pietro a cui si attribuisce anche l’intervento in Santa Chiara (oggi Teatro Rasi). L’identificazione è stata messa in dubbio in più sedi dal curatore della presente mostra, che sollecita il confronto con alcuni dipinti qui esposti: un paragone diretto che, insieme alla valutazione indiretta del ciclo di Santa Chiara, confermerebbe l’ipotesi che non si possa pensare allo stesso autore. Nel ciclo portuense – afferma Volpe – troppa è l’insistenza sulla narrazione anedottica e la gesticolazione dei personaggi, sicuramente minore la sapienza compositiva e la qualità esecutiva per confermare la presenza di Pietro da Rimini. La questione attributiva viene rigettata sul piatto a fronte non solo del confronto stilistico con le opere certe del maestro riminese, ma anche grazie all’analisi dettagliata che la nuova ricostruzione digitale permette, tutta basata su fotografie d’epoca.
Fra le numerose immagini fotografiche raccolte che illustrano da metà ’800 in poi l’esterno, gli spazi e i cicli ormai scomparsi, le videoregistrazioni che narrano le memorie di chi la chiesa la vide ancora in piedi, i disegni di un artista come Felice Giani e di uno studioso come Cavalcaselle, quello che sicuramente colpisce è la ricostruzione tridimensionale della basilica, organizzata dal laboratorio interno del Dipartimento universitario sulla base dei documenti rimasti: per il 90 percento su fotografie otto e novecentesche precedenti ai bombardamenti e per il restante sui rari disegni e planimetrie che ci sono giunti, più una piccola percentuale di fotografie in 3D di oggetti ancora esistenti. Il prodotto visivo che risulta permette a qualsiasi spettatore di entrare nella basilica, esplorarne gli spazi e vedere in modo globale o ravvicinato i cicli decorativi realizzati nel 1314: una ricostruzione che ammette doverosamente la contraddizione di un’estrema scientificità da una parte e una necessaria approssimazione dall’altra, quando le misure non tornano al centimetro o un’ombra, una lacuna in una foto, non permettono di stabilire esattamente ciò che era. Lo strumento virtuale – che permette oggi di vedere l’interezza e i particolari di un ciclo, addirittura di recuperare immagini apparentemente secondarie come una scena di chiaro intento simbolico in cui si affrontano buoi e maiali – al tempo stesso falsifica del tutto la relazione che in origine esisteva fra le immagini e il piano subordinato dei fedeli sulla terra: nessuno può infatti vedere quelle immagini quasi oscure come un tempo, quando erano elementi parziali di un divino che incuteva reverenza e negava lo svelamento della propria interezza.
Si tratta quindi programmaticamente di una traduzione fedele/infedele che distrugge e reintegra nel medesimo istante. Poco male per il pubblico comune a cui è permessa una facilità di fruizione che è lo scopo principale di ogni azione didattica: l’implicita vicinanza al monumento forse costituisce l’unica strada per la sua sopravvivenza. Ma poco male anche per gli storici che calcolano la distanza e l’approssimazione non solo nel 3D ma anche sulle carte, tenendo in conto il margine di grande imprecisione, falsità e intenzionalità che ogni documento contiene.

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