A tu per tu con Liliana Cavani, regista che ha indagato l’oscurità dell’animo umano

Ospite d’onore nella serata di chiusura del Nightmare Film Fest, l’autrice ha raccontato il suo amore per il cinema, la storia e le esperienze umane

Liliana Cavani

Liliana Cavani premiata al Nightmare

Se volessimo trovare un fil rouge nella carriera di Liliana Cavani, questo sarebbe sicuramente l’urgenza di conoscere e raccontare la storia.

Quando cominciò a produrre documentari per la Rai aveva un ricordo sfocato della guerra e una conoscenza del passato pressoché limitata alla Guerra del Peloponneso.  Era il 1961 e da lì sarebbe cominciata la sua carriera, legata a una visione del cinema come esperienza umana, libera da abbellimenti e ipocrisie. Ne ha parlato la stessa regista emiliana incontrando giornalisti e pubblico al Pala Congressi in occasione del Ravenna Nightmare Film Fest, di cui quest’anno era l’ospite d’onore.

Liliana Cavani ha fatto del crudo realismo la colonna portante della sua cinematografia e ha prodotto film dal sapore amaro, indagando gli aspetti più controversi e spaventosi della natura umana. Per questo ha diviso la critica, per questo è stata spesso colpita da censura. Come nel caso del documentario Galileo, che non venne mai mandato in onda dalla Rai nonostante lo avesse prodotto, o de La donna nella Resistenza, una primo piano sulle donne che avevano imbracciato le armi per la causa partigiana, «un tema di cui non si è parlato abbastanza». Per il documentario la Cavani aveva intervistato diverse donne, molte della quali segnate dalla guerra in maniera indelebile «C’era una maestra di Cuneo che tutti gli anni trascorreva le sue vacanze estive a Dachau, dove era stata rinchiusa, come se facesse una terapia». Dall’incontro con queste figure femminili spezzate nacque l’idea de Il portiere di notte, recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna e proiettato sabato sera al festival ravennate, in cui la protagonista è un’ex deportata che dopo la guerra incontra nuovamente l’ufficiale delle SS di cui si era innamorata nel lager: «Lei ha amato questa persona, l’ha subita e non è riuscita a trovare un equilibrio, come le mie intervistate. Si fa fatica a uscire da un’esperienza del genere… A modo suo la protagonista vendica le vittime, perché si sente colpevole lei stessa, e trascina Max verso la fine. Tant’è che sorride».

A chi le chiede quale altro dei suoi film le piacerebbe venisse restaurato, Liliana Cavani risponde L’ospite, un’altra pellicola nata da un’esperienza personale del tutto casuale: «Nel 1971 ero a Pistoia perché mi avevano invitato a un cineclub dove sarebbe stato proiettato I cannibali (uno dei primi film della Cavani, una rivisitazione dell’Antigone di Sofocle, ndr). Alla fine della proiezione del film si presenta un gruppo di pazienti del manicomio provinciale di Pistoia che mi chiedono di far loro visita il giorno dopo». La conoscenza di quanto accade nella struttura è lo stimolo per fare un film sull’argomento: «Chiesi informazioni alla capo infermiera e lei mi disse che l’ospedale era frequentato anche da persone che non avevano un vera e propria malattia mentale, ma avevano subito uno shock in passato. Una paziente era stata stuprata all’età di quattordici anni dai soldati nazisti in ritirata e aveva avuto un bambino. Era rimasta sconvolta e aveva un po’ perso la testa…».

Alcuni film nascono dalla curiosità e dalla passione. Come Milarepa, una pellicola sulla cultura tibetana «molto amato da Pasolini». per cui la Cavani chiese aiuto all’esperto Fosco Maraini, padre di Dacia: «Leggevo libri su altre religioni, e poi volevo fare un viaggio in India. Ci sono stata per il film, per cinque o sei settimane. Questo sopralluogo mi ha permesso di infilare il lavoro in maniera giusta: ho visto i contadini com’erano, figure eleganti, strane, che indossavano roba vecchia ma ben fatta, sempre sorridenti. Un’altra visione del mondo cui corrispondeva un altro modo di pensare.».

Altri nascono da un bisogno di parlare con se stessi: la Cavani ha realizzato non uno, non due, bensì tre film sulla figura di Francesco d’Assisi: il primo con Lou Castel, il secondo con Mickey Rourke, entrambi personaggi particolari ma giusti per il ruolo. «Quando ho preso Lou Castel, c’era l’idea di lui di un ragazzaccio perché aveva fatto I pugni chiusi di Bellocchio», mentre Rourke fece Francesco  all’apice della sua carriera: «Cercavo una persona che apparisse seria e credibile, anche se un po’ più folle. Ci incontrammo a New York, a dicembre, mentre lui stava girando un film. Mangiammo una pizza in due sul tappeto della sua camera d’albergo e mentre rovistava in una borsa mi chiese:”Ma io come dovrei essere?”. Io gli risposi: “Esattamente come sei”».

La carriera da regista di Liliana Cavani è iniziata in un periodo in cui dietro la macchina da presa stavano principalmente gli uomini. Oggi, anche se nel cinema, come in molti altri contesti lavorativi, si rendono ancora necessarie lotte per la parità salariale e la discriminazione di genere, la situazione è in parte cambiata «Una volta le ragazze facevano Lettere per andare a insegnare e avere il pomeriggio libero. Oggi non è più così: credo non ci sia ragazza che non desideri fare un mestiere. Le ragazze fanno quello che gli pare e fanno bene». Così è Liliana Cavani, una ragazza classe 1933 che ha rivendicato il diritto di fare quello che le pareva. E ha fatto bene.

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