Il Macbeth elisabettiano di Franco Branciaroli

«Non è un adattamento in cui Macbeth va in motocicletta oppure è un migrante: se aggiungi significati a un testo già così complesso si finisce con non capire nulla»

Franco Branciaroli in Macbeth

Franco Branciaroli è un attore come non se ne trovano più molti. Lavora sul palcoscenico da quarantasei anni ed ha interpretato tutti i personaggi più importanti del teatro classico. Al centro del suo lavoro c’è la parola.

Nella sua lunga carriera ha interpretato molti dei testi di Shakespeare in cosa si distingue Macbeth nel lavoro di attore?
«È il più difficile di tutti. Si dice che il Macbeth sia un testo “che porta male”, e molti pensano che si intenda a questioni di cabala o superstizione, ma in realtà il motivo è che mettendo in scena il Macbeth è drammaticamente probabile fare un fiasco. Non c’è nessun attore che è diventato famoso per la sua interpretazione del Macbeth, è un testo con cui si cimentano attori già affermati e spesso ci inciampano. Il grande Ruggero Ruggeri, che aveva interpretato tutti i testi di Shakespeare, abbandonò il Macbeth dopo poche repliche perché disse che era un testo “che non riusciva a sentire”. Credo che alcuni attori del periodo di Shakespeare abbiano messo mano al testo perché è scoordinato e in cui i personaggi non hanno psicologia. Tolstoj diceva «non capisco perché Shakespeare sia considerato un grande, visto che i suoi personaggi mutano improvvisamente senza ragione». Macbeth è questo alla massima potenza».
Insomma con questo allestimento si è messo nei guai da solo…
«Il Macbeth va fatto. Anche fallire fa parte della sfida del teatrante. È il più affascinante dei testi di Shakespeare e probabilmente il più famoso, grazie anche a molti adattamenti musicali come quello di Verdi, che Amleto non ha avuto. Un attore lo deve fare. Lo avevo già interpretato da giovane, ma questa volta è venuto meglio. È un testo che non si può fare da giovani».
Da dove è partito per questa regia del Macbeth?
«Non c’è una regia. È fatto alla elisabettiana. C’è solo la recitazione. Non è un adattamento in cui Macbeth va in motocicletta o è un migrante. So che spesso si fa, ma Shakespeare non ha bisogno di aiuti. Queste cose confondono e basta. Se tu aggiungi significati a un testo già così complesso si finisce con non capire nulla».
Lei sostiene che il pubblico ha molti stereotipi sulla figura di Macbeth, in che senso?
Macbeth non è un uomo assetato di potere. In Scozia l’erede del re non era il figlio, ma il congiunto più valoroso. Quindi il trono spettava a Macbeth che aveva sedato la rivolta. Il re invece nomina erede il figlio, giovanissimo e senza meriti militari. Di fatto è Macbeth che viene usurpato. Macbeth e Lady Macbeth in realtà sono due brave persone, che vengono possedute dagli spiriti. Bisogna credere in queste cose per capire il testo. Gli spiriti trasformano Lady Macbeth in un uomo togliendole il latte dal seno. Macbeth viene così “ripartorito”: è lui il vero non nato da donna… Quando loro ottengono il potere gli spiriti se ne vanno e loro riprendono coscienza di ciò che hanno fatto. Lei si suicida, lui abbraccia il nulla. Non il potere, ma la distruzione di tutto. La battuta che dice è “Sono stanco del sole, vorrei che la struttura del mondo si sgretolasse”. Diventa un super nichilista».
“Shakespeare nostro contemporaneo” recita il titolo di un famoso saggio di Jan Kott, cosa rende Macbeth nostro contemporaneo?
È il nulla. È proprio questo nichilismo. Macbeth è un uomo che sta male nel mondo, come lo è anche Romeo. Lo spettatore pensa al Macbeth crudele, cosa che non è, e quindi non si accorge di questo aspetto più profondo. Kott innesta Macbeth sulla filosofia di Heideger, Macbeth si vuole autodistruggere. Io ne ho capito solo metà di quel saggio, ma ho capito dove voleva arrivare: Macbeth è un uomo che vuole distruggersi da solo».
Lei ha lavorato con molti dei grandi del ‘900 come Carmelo Bene, Luca Ronconi, Giorgio Strehler, Michelangelo Antonioni, Giovanni Testori. Quale ha segnato di più il suo lavoro di attore?
«Come lavoro tecnico è stato Ronconi, ma non esiste “il maestro”. Servono persone che ti facciano capire i mezzi che hai. Questo fece con me Ronconi. Il periodo con Testori invece fu un’esperienza rara. Un drammaturgo che scrive per te “ad personam” non capita spesso in Italia. Sono stato molto fortunato e da ognuno di loro ho preso quello che mi serviva».
È vero che iniziò a recitare per evitare il servizio militare?
«Verissimo! Ai miei tempi c’erano 18 mesi di leva obbligatori. Avevo venti anni! Non so se mi spiego. L’università l’avevo lasciata, ma seppi che c’era una scuola che permetteva di slittare il militare perché equiparata all’Università. Era la scuola di recitazione del Piccolo Teatro di Milano».
Come è cambiato il teatro da quando ha iniziato?
«Il teatro non è mai cambiato. È sempre lo stesso. Stiamo vivendo una paranoia dove il teatro dei “giovani” – che in realtà hanno ormai cinquanta anni, ma fanno ancora finta di essere giovani – credono di fare teatro senza attori professionisti, ma con attori improvvisati, performer… Pensano che basti salire su un palco e tirarsi giù le mutande per fare teatro. Io sono di una generazione modernista, novecentesca che sprofonda nel testo. Quando dissero a Peter Brook “maestro, c’è questo nuovo autore che scrive dei testi eccezionali, dovrebbe fargli la regia” e lui rispose “sì, ma è bravo quanto Shakespeare?”, e loro “ma no, però…”. “e allora cosa ce ne frega, facciamo Shakespeare”. Il teatro non è sempre grande, ha dei periodi di splendore. Il teatro produce drammaturghi in alcuni periodi, come Eschilo, Sofocle e Euripide poi c’è il periodo di Moliere, Racine, Corneille e il più recente è quello di Beckett, Ionesco e Pirandello. Dopo questa triade qui c’è un periodo di morte del teatro».
Quindi la grande drammaturgia è legata a un dato momento e luogo?
«Esattamente. Shakespeare si è trovato al posto giusto al momento giusto, se fosse nato in Italia non sarebbe diventato Shakespeare. L’Inghilterra dell’epoca era un paese rozzo, che invidiava l’Italia che era grande per la pittura, la poesia, la musica. In Inghilterra c’era solo il teatro. Il genio di quest uomo si è dovuto applicare all’unica forma artistica che c’era».
Che consigli darebbe ai giovani che si avvicinano adesso al teatro?
«Di non farlo. Se vogliono fare gli attori per diventare famosi e ricchi gli consiglio di fare telenovelas. Non sto scherzando. Il teatro è un’arte marginale per emarginati. Oggi per fare teatro bisogna essere degli emarginati, come Rimbaud o Baudelaire, bisogna avere la volontà di stare ai margini».

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