Don Desio ai giornali: «Ho diffuso il male, mi vergogno e chiedo scusa a tutti»

La lunga lettera del parroco arrestato un anno fa per atti sessuali con minori: «Ma non ho mai fatto uso né di volenza né di minacce»

Don Giovanni Desio, l’ex parroco di Casal Borsetti arrestato un anno fa per atti sessuali con minorenni, ammette pubblicamente le sue colpe e chiede scusa alle giovani vittime, alle famiglie, alla Chiesa e alla comunità intera in una lunga lettera fatta recapitare ieri ai tre quotidiani locali di Ravenna, pochi giorni prima l’udienza di fronte al Gup Antonella Guidomei che entro la fine di maggio emetterà la sentenza del processo a suo carico, in cui rischia fino a 10 anni di pena.

Ecco la lettera integrale pubblicata dai giornali e inviata da Desio dai domiciliari in cui si trova, in una struttura religiosa in Umbria.

«Sono Giovanni Desio, sacerdote cattolico, già parroco di Casalborsetti, sospeso a divinis, rinviato a giudizio e la discussione del processo è prossima. I fatti sono sostanzialmente e dolorosamente noti per il grande rilievo che vi ha dato la stampa. Mi preme dire, perché è vero, che non ho mai fatto uso né di violenza, né di minacce. Fui arrestato all’inizio dell’aprile 2014 e, dopo qualche trascorso nelle prigioni di Ravenna fui trasferito a Forlì. Dopo circa otto mesi sono stato ammesso aglia rresti domiciliari in una struttura ecclesiastica rigorosamente segregata. Come ho detto fui in carcere per otto mesi. Il tempo, in carcere, è incredibilmente lungo ed agevola, entro certi limiti, la riflessione. Avevo chiesto due volte l’ammissione agli arresti domiciliari in una comunità di disciplina severa di fiducia della conferenza episcopale, con significativo supporto psicologico e psicoterapeutico, ma solo il tribunale del riesame di Bologna mi ci ha ammesso. Nel carcere ho conosciuto un’umanità dolente, persone sempre povere, molte volte sole. Giovani, adulti, vecchi. Pur essendo i “vinti” dalla vita erano per lo più genitli e rispettosi, avrei desiderato fare di più per loro. È stato lì che ho capito, fino in fondo, quanto fosse stata grande la mia ingratitudine verso Dio e verso il mio prossimo.

In fondo era pur vero che, agli angoscianti misteri sulla mia nascita ed all’avvolgente tristezza dei miei dieci anni di orfanotrofio, la Provvidenza aveva rimediato mettendomi in una famiglia che per me ha fatto tutto quello che ha potuto e certo è grazie a loro se non sono un relitto umano come quegli infelici compagni di detenzione. Nel carcere sono stato costretto ad un doloroso censimento degli amici. Posso però ben capire che le deplorevoli vicende di cui sono stato protagonista possano aver indotto molti che mi onoravano della loro amicizia a prendere le distanze da me. Ciò mi fa ancora di più ringraziare coloro che mi hanno mandato e mi mandano a salutare. “Amicus certus in hora incerta cernitur” (L’amico sicuro si distingue nei momenti difficili). Ai lettori della stampa, nella ragionevole certezza che ci siano anche coloro che a vario titolo sono interessati alla vicenda, voglio far conoscere, per quello che a loro può interessare, il mio stato d’animo attuale. Per un certo tempo nella mia vita ho chiuso l’anima alla Grazia e voltato le spalle a Dio, commettendo quei fatti che sono nei capi di imputazione e del cui ricordo ho profonda vergogna.

Nonostante i miei peccati, Dio ha continuato a volermi bene, impedendomi di affogare nel porto canale grazie al provvidenziale salvataggio dall’acqua e così risparmiando la mia anima dalla dannazione. Poiché, obnubilato dai sensi, non avevo allontanato da me il desiderio di quegli infami, infamanti e lubrichi peccati, sono poi scivolato su una buccia di banana e, a seguito dei fatti accertati, sono stato, anche questa volta provvidenzialmente, arrestato. L’arresto mi ha strappato da una pericolosa, ed oggi ripugnante, deriva efebofila alla quale non avevo saputo sottrarmi con le mie sole forze, pur pensando di essere sempre in tempo a farlo. La fallace illusione di Faust! Non so ben dire come io sia entrato in una condizione come quella; confido di poterlo capire nella comunità di disciplina, preghiera e recupero psicologico per sacerdoti in difficoltà, nella quale mi trovo. Il direttore è persona di dotta dottrina, severo e autorevole, di famiglia militare e fautore di un modello “alto ed amorevole” di sacerdozio. Se lo avessi conosciuto qualche anno fa, forse le cose non sarebbero andate così… Ora io non desidero altro che di essere perdonato, anche se mi rendo conto di non meritarlo per l’enormità dei miei peccati. Chiedo scusa ai ragazzi, avrei dovuto additare loro le vie della virtù ed invece li ho portati con me sulla via del peccato, li ho amati nel modo più sbagliato che potesse capitare, spero davvero che possano ritrovare la strada del bene.
Chiedo scusa alle loro famiglie che consentivano loro la frequentazione della parrocchia, forse in ricordo della loro infanzia e convinti del riparo dai pericoli. Chiedo scusa alla Chiesa, al mio arcivescovo ed ai miei confratelli nel sacerdozio. Chiedo scusa alla Comunità per aver praticato e diffuso il male, facendo, temo, vacillare la fede di molti: spero che nessuno abbia perso la fede a causa mia. So bene quanto la Chiesa nel tempo abbia fatto, fin dai suoi primi secoli, per estirpare dal comportamento sociale i peccati che mi sono attribuiti e che io ho commesso, che erano largamente diffusi nelle civiltà precedenti. Forse ha proprio ragione il mio difensore quando mi dice che i miei peccati sono principalmente contro la chiesa che, assimilando l’etica ebraica, combatte da venti secoli contro quelle ed altre trasgressioni. Capisco, quindi, il senso della costituzione di parte civile dell’Arcidiocesi.

Quanto al pentimento so bene che è una condizione umanamente non accertabile, né in positivo, né in negativo. Non si deve avere l’ingenerosità di negarlo nel prossimo (come si è fatto con me) né la superbia di affermarlo per sé stessi, poiché il pentimento deve essere una condizione permanente, un cammino senza fine che passa attraverso il rimorso, la costrizione e la volontà di riparare. Solo Dio conosce l’anima degli uomini. Il peccatore non può mai pensare di essersi pentito “a sufficienza”: il pentimento non ha misura! Per quel che mi riguarda mi sento nella condizione del Miserere, “poiché conosco la mia iniquità ed il mio peccato mi sta sempre davanti”. Mi premeva fare conoscere, per quel poco che vale, il mio pensiero sulle vicende delle quali sono stato, ahimè, colpevole protagonista. So che per i fatti che mi sono stati attribuiti il sentimento popolare è molto severo: una volta il mio difensore, celiando, mi ha detto che, per molti, in questi casi, tutto ciò che è meno della forca è sempre troppo poco. Ora sono nelle mani della giustizia umana, anch’essa fa parte dei meritati “castighi di Dio” di cui si dice nell’atto di dolore. Vittorio Mathieu, filosofo cattolico kantiano e, quindi, rigoroso retribuzionista, dice che il giudice deve resistere alla tentazione di essere buono. Su un palazzo di giustizia dell’Italia settentrionale una volta lessi il motto “ars boni et equi” ossia che la giustizia è l’arte del bene e dell’equità. Non desidero altro. Solo spero che il mio futuro non sia una dantesca, dolente città di Dite alle cui porte lasciare ogni speranza».

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