«L’adolescenza è una sorta di psicosi fisiologica»

La responsabile del Dipartimento di salute mentale su terapie e prevenzione: «Oggi si usano meno psicofarmaci»

«Il disturbo mentale è una malattia dei giovani». A dirlo è Paola Carozza responsabile del Dipartimento di salute mentale dell’Ausl da quattro anni che abbiamo incontrato, nella nuova sede del Sert appena inaugurata in via Missiroli, proprio per chiedere lumi su come la sanità pubblica si occupa di un fenomeno in costante crescita e alla luce delle difficoltà incontrate dalla nostra lettrice che raccontiamo nell’articolo correlato. I numeri parlano chiaro: negli ultimi anni il tasso di prevalenza (numero casi in relazione alla popolazione generale) si attesta a 8,2% mentre il tasso di incidenza (numero casi nuovi in un anno) al 9% di casi diagnosticati nella popolazione adolescente e tra i 12/14 anni e i 25/30 c’è il massimo picco d’esordio del disturbo mentale, con l’incidenza maggiore tra i 15 e i 24 anni. In almeno sei o sette casi su dieci, questi disturbi si associano a un uso di sostanze psicotrope come l’alcol, la cannabis o la cocaina, che possono da un lato far emergere i sintomi, dall’altro aggravarli. La ragione per cui spesso il disturbo è associato all’uso di sostanze è anche da ricercarci nel fatto che queste possono agire da palliativi degli stati di agitazione o angoscia e fungere quindi, sull’immediato, come una sorta di automedicazione.

Dottoressa Carozza, cominciamo dall’abc. Di che tipo di disturbo mentale parliamo oggi in genere quando affrontiamo il tema negli adolescenti? «Fondamentalmente parliamo di psicosi schizofrenica, maniaco-depressiva o disturbi della personalità. Questa è la principale casistica».

Come si riconoscono i prodromi di questi disturbi? «Diagnosticare un vero disturbo, e non un semplice disagio, in un adolescente è quanto mai difficile perché gli stessi comportamenti possono essere predittivi della malattia ma anche essere attribuibili alla semplice età, e distinguere non è facile. L’adolescenza è il periodo della vita che noi definiamo “psicosi fisiologica” perché è per tutti una fase turbolenta, di massimo mutamento nell’arco della nostra vita, in cui cambia il corpo ed emergono, per esempio, gli impulsi sessuali. Dunque quando ci troviamo davanti a un ragazzo che fa una vita disordinata, che ha comportamenti di ribellione, di incapacità di gestire la frustrazione dobbiamo appunto innanzitutto capire se sono fenomeni destinati a placarsi con l’età oppure no».

Si possono vedere già dall’infanzia? «Sì, talvolta si manfiestano già in bambini di 9/10 anni che faticano per esempio a restare concentrati, a stare fermi in classe, a fare i compiti».

Esistono test specifici? «Sì. In particolare noi ne usiamo uno elaborato in Australia, il Caarms, e l’altro invece italiano, che viene dal Niguarda, l’Eriraos. Ma non bastano a fugare qualsiasi dubbio. Per questo uno degli aspetti fondamentali per noi resta l’osservazione e il monitoraggio. Se questi comportamenti permangono oltre i sei nove mesi allora può essere il caso di intervenire».

E come si interviene? «Attraverso un training di gruppo che ha lo scopo di recuperare il ruolo sociale del paziente, aiutarlo a potenziare le sue cosiddette social skill. Sul piano cognitivo serve a correggere eventuali distorsioni del pensiero, sul piano emozionale si aiutano i ragazzi a gestire emozioni negative come rabbia, frustrazione, vergogna, colpa che spesso sono alla causa di comportamenti antisociali inaccettabili. Infine, si lavora sul piano comunicativo, fondamentale per mantenere i rapporti con i coetanei, esercitare la memoria e la concentrazione e poter così mantenere un ruolo nello studio e nel lavoro. Accanto a questo si affianca un lavoro di training sulla famiglia che va accolta, aiutata e guidata nella relazione con il famigliare, si tratta di un aspetto fondamentale».

Quanto la famiglia è responsabile di un figlio che sviluppa un disturbo? «Tutte le famiglie che si rivolgono a noi si sentono in colpa, ma la realtà è che non hanno alcuna responsabilità. Al momento gli studi ci dicono che un disturbo mentale può essere attribuito a microalterazioni nella formazione del cervello a livello del feto. Tra i fattori sociali che possono indurre queste microalterazioni c’è la malnutrizione, la povertà, una situazione di abbandono, di immigrazione difficile. Sono microalterazioni che possono essere viste tramite una risonanza magnetica funzionale, lo stesso strumento che permette poi di vedere come, dopo i trattamenti, le aree del cervello funzionano in modo diverso dandoci ulteriore conferma dell’efficacia dell’intervento».

Si può ricorrere agli psicofarmaci? «Sempre meno, soprattutto con gli adolescenti. Sempre più letteratura medica conferma che l’uso prolungato di farmaci antipsicotici comporta in effetti più danni collaterali che benefici. Parliamo di effetti collaterali che vanno dall’aumento del peso all’ipeglicemia, dall’innalzamento del colesterolo fino, dicono alcuni studi recenti, a deficit cognitivi».

Quindi state rivedendo le modalità di approccio alla malattia mentale? «La verità è che per anni la salute pubblica si è occupata solo degli acuti cercando di limitare la manifestazione dei sintomi tramite la somministrazione dei farmaci e, limitandosi al solo trattamento farmacologico, non è intervenuta sulla conseguenza più grave della malattia mentale che è la disabilità, ossia la perdita di ruoli sociali e la progressiva desocializzazione della persona portatrice di tale disturbo. Oggi invece bisogna cambiare approccio e lavorare più sul mantenimento o ripristino del ruolo sociale, affinché non si isoli e riesca a condurre una vita il più possibile di relazione, anche qualora non tutti i sintomi siano scomparsi. Ma naturalmente questo è possibile farlo solo con una diagnosi precoce, da qui l’importanza di lavorare sui ragazzi».

Ma chi si rivolge a voi? Direttamente le famiglie, le scuole? «Noi siamo un servizio di secondo livello, da noi in genere arrivano le famiglie che sono disperate, talvolta addirittura le forze dell’ordine che si trovano a gestire situazioni complesse con minorenni. Certo sarebbe sempre più importante lavorare in rete con scuole e pediatri e mettere anche loro in condizioni, per esempio, di fare una prima diagnosi. Per ora l’unico posto in cui siamo davvero riusciti a creare una rete e una comunità con la medicina generica è la Casa della Salute di Russi dove stiamo avendo ottimi risultati».

Come si spiega la vicenda che ci racconta la nostra lettrice, secondo la quale in diciotto mesi non siete stati in grado di instaurare un contatto vero con la figlia? Ha qualche ragione? «Conosco il caso per essermene occupata personalmente, e l’ho fatto perché mi ero resa conto che in effetti nella risposta che era stata data a quella famiglia avevamo commesso degli errori. Non tanto rispetto alla ragazza, che è comunque uno dei casi meno difficili che ci è capitato di trattare e non presenta psicopatologie, ma piuttosto nel relazionarci alla famiglia che, come dicevo, non ha mai colpe ma può avere un ruolo determinante nel percorso di recupero. Ebbene anche la relazione con la famiglia va studiata, approfondita, non può essere lasciata al buon cuore o al senso comune…».

Sta dicendo quindi che non tutto il personale è adeguatamente formato? «Noi lavoriamo molto sulla formazione di cui mi occupo personalmente, ma non è semplice quando il personale magari viene da altri reparti con tutt’altro genere di formazione pregressa o quando ci sono persone che magari hanno lavorato per decenni secondo modalità che oggi vengono completamente messe in discussione. Eppure è esattamente ciò che dobbiamo fare. Se per altre branche della medicina è fondamentale per esempio avere apparecchiature diagnostiche sempre più sofisticate per poter intervenire in modo più efficace, noi possiamo e dobbiamo contare innanzitutto su noi stessi e sulla nostra preparazione». Federica Angelini

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