
Nell’anno che sembra quasi quello della fine del tunnel, abbiamo fatto il punto sulla pandemia con Giacomo Farneti, ricercatore ravennate dell’Iss che abbiamo già ospitato in passato sulle nostre pagine, nominato nei giorni scorsi dal prefetto Cavaliere al merito della Repubblica.
Possiamo dire che è stato l’anno in cui ci siamo dimenticati del Covid, almeno di come lo conoscevamo?
«Esattamente, il 2022 è l’anno in cui ci siamo dimenticati del Covid. Questo però si è rivelato un errore. Primo Levi scriveva: “Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”. I dati che, come ricercatori, raccogliamo settimanalmente, ci dimostrano che la pandemia in Italia non è finita, anche se di certo ha cambiato volto: a fronte di un’importante discesa dei contagi assieme a una netta riduzione nell’esecuzione dello screening dei tamponi – preoccupa, e non poco, l’aumento dei decessi che superano il numero di 100 al giorno (103 questa settimana contro i 98 della settimana precedente). Oramai siamo diventati numeri, viviamo quotidianamente con i numeri, tuttavia essi non ci scalfiscono più: che siano numeri della pandemia, numeri di un bollettino di guerra, numeri spaventosi inerenti al cambiamento climatico, pare che nulla di tutto questo possa intaccare il nostro ego materiale ed individuale».
Da ricercatore, quali numeri devono preoccuparci?
«Tengo a comunicare i dati senza necessaria interpretazione, in modo da non essere frainteso: nella passata settimana (9-16 dicembre 2022) in Italia si è registrata una diminuzione di nuovi casi (174mila contro 221mila) e un aumento dei decessi (719 contro 686), un calo dei pazienti positivi ricoverati (485mila contro 523mila) e delle persone in isolamento domiciliare (475mila vs 513mila). La curva dei nuovi contagi ora in discesa (-21,1%) non deve essere considerata come unico riferimento per analizzare l’andamento nazionale: tutte le Regioni ad eccezione della Sardegna (+14,1%) registrano un calo dei nuovi casi positivi (dal -3,2% della Calabria al -32,7% della Provincia Autonoma di Trento) ma in 13 Province si rileva un aumento dei nuovi casi (picco +49,4% di Oristano) e in 94 una diminuzione (dal picco al -36,9% di Prato). Dal punto di vista ospedaliero i ricoveri in area medica aumentano (+2,4%) mentre calano i ricoveri nelle terapie intensive (-4,2%). Se volessimo ragionare in maniera completa occorrerebbe inoltre analizzare la questione della problematica sottostima dei contagi a causa soprattutto delle persone asintomatiche ignare della loro positività: l’indice Rt (numero medio di persone in grado di contagiare un’altra persona), stimato necessariamente per difetto, è attualmente intorno allo 0,9 % circa. La variante tuttora predominante Omicron (oltre alle attuali varianti Cerberus -circa il 31% dei casi in Italia- e Gryphon – circa il 3,4%) ha avuto un forte impatto sull’incidenza dei contagi. I motivi di questo aumento sono attribuibili all’interazione di diversi fattori: innanzitutto Omicron è caratterizzata da una infettività dieci volte superiore rispetto al virus originario e da una maggiore quota di infezioni asintomatiche che hanno facilitato notevolmente la trasmissione del contagio. Inoltre, dobbiamo considerare che questa variante è arrivata nel contesto di un sistema sanitario già messo a dura prova da un periodo di crisi sanitaria senza precedenti per intensità e durata. L’aumento di quasi sei volte dell’incidenza media rilevato successivamente alla diffusione di Omicron è stato accompagnato dall’incremento cospicuo della percentuale di casi non riconducibili a catene di trasmissione note su casi presi in carico (ovvero di casi positivi non ufficialmente registrati nel Portale). Ci avviciniamo al Natale con un virus attivo che circola senza pausa e quasi il 72% di fragili e over 60 scoperti. Nelle ultime due settimane il numero dei nuovi vaccinati è sceso infatti sotto le mille unità: non si era mai registrato un dato così basso dall’inizio della campagna».
Quindi il Covid non è diventato come un’influenza?
«In parte: da un punto di vista empirico lo è da tempo, dal punto di vista scientifico non è così semplice. L’influenza stagionale è già entrata in maniera dirompente nelle nostre case e negli ospedali italiani ma, anche quest’anno, c’è un fattore di rischio aggiuntivo: Sars-Cov-2. La somma di questi due virus in circolazione, si ipotizza, porterà ad un totale di più di 170mila casi al giorno, 90mila dei quali di Covid19. Il nostro sistema sanitario nazionale ha compiuto sforzi straordinari per affrontare questa crisi sanitaria e sicuramente abbiamo attualmente molte più informazioni, risorse e strumenti rispetto ai primi mesi del 2020 per contrastare la diffusione e per curare la sintomatologia. Non dobbiamo però abbassare mai la guardia: la velocissima diffusione dell’influenza stagionale 2022/2023, detta “australiana”, è legata in gran parte al fatto che per due anni, mentre eravamo impegnati sul fronte Covid, non ci sono state altre infezioni che abbiano rinforzato le difese immunitarie della popolazione. La via d’uscita, in considerazione anche dell’epidemia influenzale stagionale, rimane una sola, soprattutto per le persone fragili: vaccinarsi. Creare una risposta immunitaria del nostro organismo ai virus rimane scientificamente oltre al fatto che la storia della medicina ce lo insegna senza dubbi – una delle strade più importanti da percorrere».
Il merito di una sorta di indebolimento del Covid è solo dei vaccini?
«Il “merito” dovrebbe essere attribuito alla coscienza e alla comprensione; il vaccino anti-Covid19 non ha “trasformato” il virus Sars-Cov-2 in un virus influenzale, nella maggior parte dei casi ha dato la possibilità alle persone di non incorrere a sintomatologia grave o ad eventi nefasti».
I vaccini si sono rivelati meno efficaci di quanto si sperasse inizialmente?
«La vaccinazione per ridurre i rischi di infezione e malattia grave da Covid19 e influenza rimane fondamentale. Potremmo discutere sulla limitata efficacia dei vaccini nel prevenire il contagio ma le evidenze scientifiche circa l’efficacia nel prevenire malattia grave e decesso sono inequivocabili. La “metafora del paracadute”, un paradosso, ci aiuta a capire tutto questo ma è possibile fare un altro esempio: i nuovi farmaci antivirali contro l’epatite C sono talmente efficaci che sono stati introdotti qualche anno fa semplicemente con uno studio prospettico senza la necessità di testarli con studi randomizzati o con l’utilizzo di placebo. Qualcuno ha risposto: “I paracaduti, al contrario dei vaccini, sono collaudati e brevettati prima di essere usati, quindi sicuri”. L’esempio è estremamente calzante perché i trial registrativi randomizzati e controllati sui vaccini anti-Covid19 sono stati fatti e corrispondono, in un certo senso, al collaudo e al brevetto del paracadute in quanto sono serviti a verificare che essi fossero efficaci nel prevenire l’infezione sintomatica in modo drammatico (più del 90%) e sicuri per la popolazione di studio. La vera prova inconfutabile di efficacia dei vaccini, oltre al costante miglioramento della loro “ricetta”, è arrivata comunque dall’esperienza della nostra stessa vita quotidiana, dai registri nazionali e dalle centinaia di studi osservazionali affrontati a livello mondiale su milioni di persone: questi studi hanno dimostrato l’efficacia, anche se temporanea, sul contagio sia nell’era pre-Omicron sia dopo l’arrivo di questa variante. Chi sostiene quindi che non c’è nessuna dimostrazione di efficacia e sicurezza dei vaccini perché i trial non hanno risposto (e non potevano farlo) a tutti i quesiti di efficacia e sicurezza, nega tutta la straordinaria mole di evidenze scientifiche che sono state prodotte sui vaccini stessi tramite gli studi osservazionali sulla popolazione reale, nega cioè che il paracadute funzioni».
Crede sia giusto non indossare praticamente più le mascherine, anche al chiuso, come sta facendo la stragrande maggioranza delle persone?
«Credo che occorra molto più buon senso e molta più logica razionale di quella che la popolazione italiana in generale abbia avuto finora. Ci sono popolazioni in Oriente e in altre parte del mondo che utilizzano la mascherina quotidianamente, sia come metodo per contrastare lo smog sia perché hanno tosse e raffreddore: questo rappresenta un impegno sociale e culturale che, io credo, dovremmo raggiungere. “Culturale” perché l’utilizzo della mascherina negli spazi chiusi e affollati dovrebbe rappresentare un concetto estremamente più ampio e importante, ovvero quello della prevenzione; è prioritario e fondamentale un invito alla prevenzione, un richiamo ai comportamenti e coinvolgimenti proattivi delle singole persone, perché essa può concretamente salvare la vita. Non solo per il Covid19: la pandemia ha fin troppe volte occultato le altre criticità sanitarie per le quali la sola diagnosi non può fare molto. Parliamo della patologie cardiovascolari, delle patologie neoplastiche, neurologiche. La mascherina non è solamente un simbolo, un atto punitivo di privazione della libertà, una mera regola dettata dalla statistica: la mascherina, io credo, rappresenta soprattutto un atto di rispetto e dovrebbe rappresentare, all’interno della nostra cultura, una buona norma dettata dalla scelta non autocratica ma responsabile. Cerchiamo di non guardarci indietro con rabbia o avanti con paura, ma intorno con consapevolezza».
Qual è il più grande insegnamento che dobbiamo trarre da questa pandemia?
«La pandemia da Covid-19 ci ha insegnato, anzi, ci dovrebbe insegnare che siamo tutti fragili e che il bene che assicuriamo solo a noi stessi è precario e incerto fino a quando non viene assicurato a tutta la comunità, all’umanità intera, incorporandolo nella nostra vita quotidiana. La morale di questa pandemia, dai Dpcm agli hashtag, dal “coprifuoco” allo smart working, io credo, può essere letta unicamente nel rispetto reciproco e nell’identificazione di scelte consapevoli; il desiderio iniziale –di normalità, di benessere, di libertà deve necessariamente trasformarsi in volontà costante nei confronti del miglioramento individuale e collettivo. L’ideale di rispetto reciproco dovrebbe automaticamente passare attraverso il valore, certamente, di libertà ma anche di uguaglianza (il virus ce lo ha insegnato bene!) e di fratellanza, poiché essi rappresentano il luogo in cui la salute individuale coincide con la salute collettiva. Al contrario della guerra, sempre categoricamente ingiusta, sarebbe forse utile vedere la pandemia nella prospettiva di una possibilità di correzione, in cui spetta al singolo individuo recepirne la “lezione”; l’Italia è una nazione “esperta” in tema di rinascita e per questo motivo sarebbe importante ricordare i valori essenziali che il Covid19 ci ha costretti a ricordare ed evidenziare. Søren Kierkegaard, nella sua opera Aut-Aut, scrive una cosa interessante: »dopo la morte, arrivato lassù, mi chiederanno di rispondere ad una sola domanda “Hai fatto chiarezza?”». In altre parole, il filosofo danese sostiene che, alla fine della vita terrena, ci verrà chiesto conto della nostra chiarezza nei comportamenti, nei sentimenti, nelle scelte, nelle cose fatte e dette; la lezione della pandemia potrebbe essere quella di interrogarsi e di comprendere l’importanza di preservare ad ogni costo la salute collettiva, non scappando dal “buio” ma conoscendolo e comprendendolo per camminare insieme verso la luce»