Quegli sposini mediocri, geniale dramma grottesco sulla banalità del male

Gli Sposi Timpano FrosiniGli sposi. Gli sposini. Un’adorabile coppia battibeccante, come ce ne sono tante. Una coppia dalla vita mediocre, dalle aspettative mediocri, dai sogni mediocri. Una coppia «senza smalto in un mondo senza orizzonte«, che sarebbe del tutto superfluo vedere ritratta su un palco… se non fosse che si tratta dei coniugi Ceauşescu. Nicolae e Lenuţa, diretti responsabili del disastro umano ed economico di un’intera nazione, la Romania, che governarono senza soluzione di continuità dal ’67 al ’89.

La genialità di questo Gli sposi, riduzione di una drammaturgia del francese David Lescot, classe ’71, ad opera di Elvira Frosini e Daniele Timpano, sta tutta nella contrazione narrativa sull’intimità, direi quasi casalinga, dei protagonisti. Il duo romano, da anni impegnato in una decostruzione comico-critica della storia contemporanea italiana (Aldo Morto, Dux in scatola, Acqua di colonia), ha colto alla perfezione l’importanza di questa chiave interpretativa, dando forma a uno spettacolo sotto molti punti di vista perfetto.

In un dialogo incessante, fatto di quadri scenici costruiti con ritmo forsennato, i coniugi Ceauşescu, fin dall’incipit non fanno che raccontarsi, definirsi, mettersi a fuoco per il pubblico. E lo fanno con tutti quei tic e quelle piccole mistificazioni tipiche delle coppie anziane, prendendosi in giro, svelando subito gli equilibri di coppia: lei risoluta, tagliente, a tratti greve; lui goffo, devastato dai tic e dalla balbuzie, spesso poco più che un ingombro scenico.

Siamo dentro la loro intimità, seduti nel loro salotto. Osserviamo la storia rumena filtrandola attraverso le loro dinamiche di coppia. Ecco Nicolae che finisce in galera, negli anni ’30, per aver partecipato quasi per caso a uno sciopero, dove incontra per la prima volta Lenuţa; ecco Lenuţa intimidire i professori di Bucarest per ottenere una laurea in chimica, usando il cognome dello sposo ormai affermato; eccoli in Francia, ospiti di Chirac, andare su tutte le furie per non aver avuto il privilegio di dormire all’Eliseo; eccoli leggere assieme le barzellette rumene che li prendono di mira («Sai qual è l’animale preferito di Ceauşescu? Il pinguino, perché vive al freddo e sa applaudire»: in apparenza innocua, se non fosse che i rumeni, alla fine del regime, erano davvero costretti a tenere il riscaldamento a 13°). Ed eccoli infine fianco a fianco, il 25 dicembre 1989, fucilati dopo un processo sommario, a rivoluzione ormai innescata.

Il testo di Lescot si concentra sul legame fra i due, ne porta alla luce le asimmetrie. Si vede in filigrana il Macbeth, naturalmente: una moglie che, un po’ per ambizioni personali, un po’ per innata difesa del focolare, un po’ per maggiore intelligenza e prontezza del partner riesce, di giorno in giorno, ad irrobustire l’immoralità di un uomo assolutamente inadeguato al governo.

Il meccanismo funziona: il pubblico penetra nella loro intimità, finisce per empatizzare col dittatore – così umano, così banale. Prevede le reazioni incontrollate di Lenuţa, sorride al totale assoggettamento di Nicolae, che per tutto lo spettacolo continua a prendere ordini dalla moglie, come una sorta di Ubu ritardato. Prova sincera tenerezza per la loro limitatezza d’orizzonti. E rimane agghiacciato dalla violenza istantanea della loro fine.

Frosini/Timpano reggono l’intera impalcatura con la sola forza dei corpi e delle voci. La performance fa saggiamente a meno di ogni orpello scenografico: il palco rimane praticamente nudo fino alla fine, il focus è su movimenti registici oculati, su continui andirivieni narrativi, su gesti ripetuti e precisi (il tic kubrickiano al braccio di Timpano-Nicolae, perfetto anche nella mimesi del volto sconvolto del leader davanti alle proteste di piazza).

Le musiche, centellinate e perfettamente inserite nel testo, moltiplicano gli effetti grotteschi: ci sono le cover rumene di Cuore matto e Tanti auguri (un sogno d’Occidente spensierato, tutto polimeri e sorrisi); c’è la grande Maria Tănase; e c’è, naturalmente, Dragostea din tei, un’anti-Internazionale che, alla fine dello spettacolo, va a sdoppiare i piani di lettura critica.

Fucilati i corpi dei dittatori, cosa rimane? L’Internazionale mormorata dai Ceauşescu viene sovrastata dalla hit dance rumena. Per la prima e ultima volta un video accende il fondale. Cosa vediamo? Una Romania luccicante di centri commerciali, di luna park, dello stesso immancabile consumismo cafone in cui nuotiamo ogni giorno.

Nostalgia del regime? Assolutamente no: l’imbecillità grottesca di questi sposi non lascia spazio a rimpianti. Sorge però il dubbio, leggendo il sottotitolo, che questa romanian tragedy non sia ancora finita. Che occorra scavare ancora – come il labrador del conducător che chiude questo spettacolo – per capire cosa ci è successo.

 

Gli sposi. Romanian tragedy

Regia e interpretazione e riduzione di Elvira Frosini e Daniele Timpano

Testo di David Lescot

Traduzione di Attilio Scarpellini

Disegno luci di Omar Scala

Scene e costumi di Alessandro Ratti

Collaborazione artistica Lorenzo Letizia

Assistente alla regia Camilla Fraticelli

Voce off Valerio Malorni

Progetto grafico di Valentina Pastorino

Uno spettacolo di Frosini / Timpano

Produzione Gli Scarti, accademia degli artefatti, Kataklisma teatro

Con il sostegno di Armunia, Spazio ZUT!, Teatro di Roma, Asti teatro

Nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

Visto al teatro degli Atti il 20 novembre 2019

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