Grossman tra archetipo e cliché 

Quando un autore come David Grossman viene in una città come Ravenna per parlare del suo ultimo libro, il minimo che si possa fare è leggerlo, il suddetto libro: Applausi a scena vuota (Mondadori). E scoprire così una messa in scena, cioé uno spettacolo di cabaret, che è metafora  dell’esistenza e che durante il libro rinuncia al proprio livello simbolico per trasformare il teatro in un racconto di vita vissuta, ma che in realtà sappiamo essere fiction. Trattasi infatti di un’idea che Grossman ha coltivato per 25 anni prima di trovare la formula per poterne fare il nucleo di un romanzo: un bambino diretto al  funerale di uno dei due genitori, senza sapere di quale.  In un certo senso un gioco degli specchi tra narratore e lettore, tra attore e spettatore, per arrivare a raccontare una storia che mette in scena dilemmi famigliari, un pezzo importante della storia di Israele e il suo presente, ma anche temi universali quali la perdita, il lutto, la fine dell’innocenza, la difficoltà di comunicare. Grossman ha detto davanti al pubblico ravennate che quando costruisce un personaggio vi si cala completamente, che nel tratteggiarlo non pensa al livello simbolico ma pensa a dar vita a un essere umano e magari prende ispirazione da chi lo circonda. E tuttavia in questo libro, a tratti anche un po’ faticoso perché la scena sembra rallentare fino a fermarsi, percepiamo sì un’umanità autentica dei personaggi, ma soprattutto ne vediamo il loro valore quasi archetipico. Del resto, il tema stessa al centro del romanzo è totemico, il dilemma che prende la forma della colpa nel figlio che si trova a scegliere suo malgrado fra madre e padre. E se l’attore di cabaret ci strazia dal palco, il lettore è in bilico tra il pathos per un protagonista a tratti fastidioso e la vicinanza alla figura che ci appare quasi un’ancora di salvezza da quel profluvio di battute volgari: si tratta di uno spettatore invitato e voluto dal protagonista stesso, un giudice in pensione che ha perso l’amore della sua vita, e che nonostante all’inizio possa apparire un personaggio funzionale al cabarettista, acquista con l’andar delle pagine una sua tridimensionalità e profondità. Quasi a indicarci una possibile strada  per non abbandonare il protagonista come hanno fatto tanti altri spettatori nel corso della serata lasciando una sala semivuota. Un libro doloroso, anche se infarcito di barzellette (più o meno divertenti, più o meno scontate, più o meno volgari) dove alcuni cliché (per esempio il comico che non fa ridere e passa dalla commedia crassa alla tragedia) superano il luogo comune per parlarci di  modelli universali.

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