Accademia Bizantina e l’indagine tra le maglie dei contrappunti de “L’Arte della fuga” di Bach

Bach Arte Della FugaL’Arte della fuga. Una delle opere più affascinanti e misteriose che la storia musicale abbia prodotto: nemmeno a dirlo, la paternità di questa raccolta eterna appartiene all’immortale Johann Sebastian Bach. Fiumi di inchiostro sono stati versati a sostegno delle più disparate tesi per spiegare la perfezione compositiva raggiunta dal Kantor. Come tutte le opere incompiute, poi, essa è divenuta, nel cor­so dei secoli, piatto succulento per qualsiasi tipo di speculazione che si proponesse una lettura ponderata. Con ogni probabilità, la vera ragione della na­scita di quest’opera rimarrà celata per sempre, ma a volte le ipotesi più semplici appaiono le più plausibili ed in questo caso è davvero probabile che Bach volesse presentare la sua composizione ai membri della “Cor­res­pondierende Societät der musicalischen Wissenschaften” di Lorenz Christoph Mizler, associazione della quale era membro, quale saggio annuale di tipo scientifico-musicale.
Sotto questa luce si può guardare alla lettura che Accademia Bizantina ha fatto di questa opera monumentale nel disco, uscito per l’etichetta Decca sul finire del 2017. Già nell’introduzione scritta di pugno dal direttore e clavicembalista del gruppo ravennate, Ottavio Dantone, vi è il manifesto programmatico dell’incisione discografica, ossia la ricerca dei «sublimi piaceri» tramite l’indagine «tra le maglie dei contrappunti». La scelta dell’organico (quartetto d’archi unito a organo e clavicembalo), fondamentale in quest’opera senza una destinazione specificata dall’autore, appare molto equilibrata sia per disposizione sia per omogeneità timbrica dalla quale il solo clavicembalo prende le distanze: i primi due contrappunti sono presentati separando nettamente i due differenti timbri che si mi­sceleranno con sapienza al­l’in­terno del di­­sco.
Interessanti so­no, infatti, le scelte fatte per mettere in risalto le emozioni che Bach dissemina nelle proprie pa­gine. La meraviglia più grande, però, è certamente la perizia con la quale gli strumenti ad ar­co s’inseriscono sul suono dell’organo, regalando la direzione sonora che non è propria della tastiera, pur lasciandolo apparire come indiscusso protagonista. Cercando il pelo nell’uovo, manca in tutta la lettura della pagina bachiana un po’ di colore, quasi il timore reverenziale permettesse solo bellissime sfumature in bianco e nero.
La giusta declinazione di questo timore è viva nella scelta di non completare l’ultima fuga, ma di farla finire alla celebre battuta 239, lasciando viva quell’incompiutezza e quell’enigmaticità che è cifra peculiare dell’opera.

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