Forse le ex fidanzate sono tutte come Cat Power

Di questi tempi va molto di moda tirar fuori questioni di genere legate alla musica rock: sessismo, mansplaining, rape culture. Sono discorsi che mi fanno infuriare perché mi dipingono, in quanto ascoltatore rock maschio, come una sorta di stupratore potenziale la cui forma mentale lo costringe a discriminare senza pietà qualsiasi ragazza che prova a mettere il piedino nel mondo della musica. Mi è sempre sembrata un’interpretazione decisamente esagerata, e il fatto che io lo consideri esagerato mi ha fatto piombare addosso qualche accusa di mansplaining, suppongo meritata. Penso spesso alle cantanti che ascolto e mi rendo conto che in qualche modo c’è sempre in nuce una componente di sessualità, o di amore, o uno strano senso di protezione che provo nei confronti di alcune, e al fatto che cerco di ricondurre tutte le ragazze che suonano ad archetipi preesistenti, e sono tutte altre ragazze. Non sono il solo. Prendete Cat Power, ad esempio: è facilissimo, quando leggete un articolo su di lei, sgamare un sottotesto piagnone da giornalista che spera segretamente di venire letto dalla cantante e magari farla innamorare. È una cosa che viene tipicamente dal mondo punk/indie: si parla di alcune cantanti come se ci fossero meno gradi di separazione che con i maschi, come se a un certo punto fossimo stati a una cena assieme e lei avesse riso a una nostra battuta e poi le avevamo consigliato un libro da leggere o quella roba lì. Ultimamente è una cosa che funziona molto anche nel pop, credo sia stata introdotta da Lily Allen e s’è allargata a cose tipo Katy Perry.
E d’altra parte anche io vivo la mia storia personale con le musiciste in questo modo malato. Magari non ho una vera e propria percezione sessuale legata alla musica, ma se ad esempio una cantante nuova fa musica troppo simile a quella di Shannon Wright, la prendo sul personale. Tante piccole cose. Sessismo? Non ne sono convinto. C’è un film in cui viene raccontata bene questa cosa, incidentalmente un film con Cat Power. In Italia è uscito col nome Un bacio romantico, traduzione letterale di My Blueberry Nights. L’ha girato Wong Kar-Wai. La storia è così: una ragazza viene lasciata dal fidanzato e lascia la chiave dell’appartamento a una tavola calda che sta sotto il palazzo. Il gestore della tavola calda è una specie di Jean-Paul Sartre dei ristoratori newyorkesi, interpretato da Jude Law. Lei e lui iniziano a parlare della fine delle cose, lui ha un vaso di vetro pieno zeppo di chiavi lasciate da qualcuno che non sta venendo a riprendersele, racconta la storia dietro le chiavi. Poi lei fa un viaggio di un annetto in giro per l’America e si ferma in certi posti a fare la barista, in ogni bar incontra gente con storie d’amore complicate e drammi familiari. Intanto scrive lettere a Jude Law. Verso fine film c’è una scena un po’ onirica in cui Jude Law si fuma una sigaretta fuori dal locale, arriva Cat Power, e si mettono a chiacchierare. Lei è la ex ragazza di lui, e parlano dei mazzi di chiavi e delle cose che finiscono. Poi si danno un bacio e lei sparisce per sempre. È una metafora del superare le cose, non è proprio chiaro se stia succedendo davvero. Le ex ragazze sono tutte come Cat Power, almeno nella misura in cui i cuochi sono tutti come Jude Law.
Però io me la sento addosso. Cat Power l’ho ascoltata alla fine degli anni novanta, il primo disco che ho sentito era Moon Pix. Poi ho recuperato i primi due (Dear Sir e Myra Lee), che sono di gran lunga i suoi migliori. Li ha registrati il batterista dei Sonic Youth, che la vide nel ’93 suonare di spalla a Liz Phair e ne rimase impressionato: due dischi in un’unica seduta, le canzoni erano già più o meno uguali a come sono ora, arrangiate con queste dissonanze e certe chitarre acide che ricordano un po’ John Frusciante. Me ne innamorai: era dolce ed era aspra e poi la vidi in foto. Dicono che dal vivo la mandasse sempre in vacca: interrompeva le canzoni, interrompeva i concerti, sbroccava per un nonnulla. A sentir lei era colpa del troppo bere e del troppo drogarsi e della fobia del palco. Sotto al palco le persone sono disposte a perdonare tutto a parte i brutti concerti.  Quando uscì You Are Free, il primo disco davvero grosso, la storia tra me e lei era iniziata ad andare un po’ in crisi. Le ragioni per cui le storie finiscono sono sempre più o meno le stesse: la donna cambia più velocemente dell’uomo, lei voleva far pace con le sue cose, io la volevo uguale a come l’avevo conosciuta. Così una volta l’ho presa in disparte e abbiamo deciso di non vederci più. Ho regalato la mia copia di You Are Free ad una ragazza con cui sono uscito per un pochetto e a un certo punto l’ho ri-scaricato tanto per riascoltare di tanto in tanto “Good Woman”.
L’ho reincontrata per strada un paio d’anni dopo. Io avevo trovato una fidanzatina, lei aveva inciso The Greatest. Mi ha chiesto una sigaretta e siamo rimasti lì un po’ a parlare del più e del meno. Anche lei aveva trovato un nuovo fidanzato, in forma di un pubblico molto più grosso di quello che la seguiva quando stavo con lei. Diceva che era passata per vedere come stavo, l’ho trovata in forma. Certo qualcosa era diverso, non c’erano più tutti gli sbrocchi e le asperità, ma la musica era ancora buona e le canzoni le riconoscevi ancora come le sue. La prima canzone di The Greatest si chiama The Greatest ed è diventata la sua canzone più conosciuta in assoluto. Ha smesso di bere e di drogarsi. Dicono che adesso i concerti sono diventati molto belli e meno matti. A un certo punto ha anche tagliato i capelli corti e quella frangetta. Quando la gente la scopre e se ne innamora mi viene fuori uno strano sorriso, penso che l’amore del pubblico se lo merita tutto e che non importa quanto s’è trasferita lontano, per lei c’è sempre un pezzo di cuoricino. Per scrivere questo pezzo ho ritirato fuori i primi dischi, che avevo messo da parte anni fa, e non ascolterò altro per settimane.

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