Quando il rock “bello” diventa un’ossessione

Tutti ne conosciamo uno: è un rockettaro un po’ attempato e fuori forma, o comunque dimostra più anni di quelli che ha. Si sbarba tutte le mattine e tiene puliti i lunghi capelli crespi, legati con una coda di cavallo per nulla sexy. Indossa una camicia un po’ larga e colorata di un pastello non impegnativo, e un paio di jeans Wampum sformati. Ai piedi ha un paio di scarponcini o stivali da cowboy, e spesso cura la miopia con un paio di occhialetti da vista tondi a montatura leggera. Uno stereotipo vivente. Probabilmente la sua vita avrebbe potuto avere un altro corso. Forse a un certo punto voleva perfino conoscere qualche ragazza, e magari è per quello che un giorno, nei suoi 14 o 15 anni, ha iniziato a prendere lezioni di chitarra. Forse ha incontrato l’insegnante sbagliato, un ex chitarrista grassoccio che ha studiato assieme a uno che a un certo punto è diventato turnista del Blasco e gli ha riempito la testa di informazioni contraddittorie e quindi – in qualche misura – affascinanti. Forse l’ha convinto che oltre quelle coltri di rumore c’è qualcos’altro, del potenziale inespresso, la possibilità di rendere anche il rock una musica nobile. I primi gruppi sono i soliti: Toto, Dire Straits, magari i Dream Theater; da lì in poi si scoperchia un vaso di pandora. Il suo gusto inizia a cambiare: mentre i coetanei escono di testa per dischi rock dozzinali e ultra-distorti (che so, i Nirvana), lui scopre la chitarra pulita e l’alta fedeltà. Viene travolto dai Classici, i grandissimi Pink Floyd, le architetture di un certo jazz tecnico (Weather Report, il Davis di Bitches Brew). Nella sua mente si mischia tutto. Due anni dopo ha già iniziato a rifiutare scientemente ogni situazione sociale per acquisire la perizia tecnica necessaria a riprodurre gli a solo di Mark Knopfler alla perfezione. La vita sessuale è ormai percepita come un ostacolo alla sua ricerca del suono, e certi amici stanno imbarcandolo in una cover band che riproponga i dischi dei Genesis integralmente. Dieci anni dopo è possibile vederlo, un po’ defilato, in zona mixer («si sente meglio»), al concerto di Eros Ramazzotti. Non è una conversione, anzi: la sua ricerca l’ha portato qui. Si è speso 100 euro di concerto per godersi gli a solo del grande Paul Warren, o la sezione ritmica guidata dal grande Vinnie Colaiuta. C’era questa battuta, non so chi l’abbia detta: «L’ossigeno fu scoperto nel 1771, e ci si chiede come facessero prima di allora a respirare». Nasconde una grande verità di fondo per cui, diciamo così, certe cose che esistono da sempre assumono un’altra importanza una volta che trovi loro un nome. Ecco, per me tutti quei sottogeneri del rock che vengono prodotti per soddisfare le esigenze dei cultori della tecnica e dell’altissima fedeltà non sono mai stati molto importanti finché qualcuno in un forum ha iniziato a chiamarli “riccardoni”, e da allora le cose hanno avuto tutto un altro peso.
Il rock riccardone si sviluppa in maniera parallela al rock propriamente detto, con una certa quieta esuberanza ed un’invincibilità di fondo che lo mette al riparo dagli attacchi della crisi discografica. Direi che la sua genesi è databile alla fine degli anni sessanta, in un periodo nel quale alcuni musicisti iniziarono a sentirsi profondamente a disagio nei confronti della canzoncina rock da tre minuti, e iniziarono a concepire vere e proprie fughe dal canovaccio, dischi strapieni di improvvisazioni, opere rock e via deliziando. Un altro decennio di equivoci selvaggi e brutali misletture del concetto portarono alla nascita di una nuova forma del rock progressivo, la più decisa forma di massimalismo mai applicata al rock, ai confini con la fusion, che si distingueva per la nettezza dei suoni e la precisione assoluta delle esecuzioni. Perlopiù erano standard musicali firmati da strani personaggi con cognome italoamericano e atteggiamenti mascolini sui loro strumenti nella foto dentro la copertina. Nel frattempo la musica pop propriamente detta, così come il rock più selvaggio e sperimentale, si distanziano sempre di più dal canone estetico di riferimento di questa nicchia. È stato così che, alla fine degli anni ottanta, il rock riccardone è diventato un genere musicale che, sebbene diviso in centinaia di micro-correnti, è assolutamente identificabile ed assolutamente distanziato dalle altre forme di rock. Un genere musicale che occupa militarmente le vite dei propri ascoltatori, votandole ad una ricerca del BELLO che modificherà irrimediabilmente ogni aspetto della loro esistenza. La sostanziale impermeabilità di questa avventura alle cose del mondo ha finito per renderla totalmente grottesca e anacronistica, e come per tante altre cose grottesche e anacronistiche, è nel riccardonismo che forse va cercata la forma più pura dell’ossessione rock, quella che cambia il corpo e la mente e ci rende ultra-riconoscibili. Il nostro eroe lo sa bene. Nel corso degli anni, oltre all’aspetto fisico, ha visto modificarsi la realtà attorno a sè, e si è rintanato all’interno delle mura domestiche. Lì ha costruito un impianto stereo, un vero impianto stereo, un mastodonte per la riproduzione dei dischi alla miglior fedeltà possibile, customizzato da un professionista che ha scelto di dedicarsi all’alta fedeltà invece che all’omicidio seriale. Impianti stereo studiati in ogni parte, di cui ogni elemento (persino i cavi) è scelto con la massima cura e posto in un punto della stanza che è stato selezionato dopo tre pomeriggi di calcoli. Lo stesso che succede per l’impianto audio dell’automobile, montato con cura certosina nonostante le sfavorevolissime condizioni ambientali. Il tutto, in genere, per ascoltare una discografia che si compone di cinquanta o cento titoli, dieci dei quali in realtà sono versioni rimasterizzate di Dark Side Of The Moon. Un giorno scopre le possibilità del metal, la fisicità del suono, la rapidità ineguagliabili delle fasi soliste. Yngwie Malmsteen diventa la sua ossessione, Steve Vai e Joe Satriani subito dietro. A un certo punto questi tre iniziano a girare per i palchi di tutto il mondo sotto la dicitura G3: suonano pezzi del repertorio, improvvisazioni soliste, fasi a tre. Credo sia la cosa più vicina a Cristo mai sperimentata da un pagano della musica. L’apoteosi del concetto, l’inarrivabile vetta, il non plus ultra. Certo, nel corso degli anni il concetto si è svilito, ha perso l’effetto sorpresa e non comprende più Malmsteen. Ma ecco, se quest’estate c’è un concerto che va visto per leggere un’ossessione nei volti del pubblico, direi che non c’è dubbio su quale sia (vedi box in questa pagina).

TOP RENT BILLBOARD FOTOVOLTAICO 04 – 18 04 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24