I migliori dischi covidcore del 2020

 

Il genere musicale più in voga del 2020, per ragioni più che giustificate, è il covidcore. Mai sentito, direte voi. Beh, ci sta.

Cerco di spiegare cosa intendo per covidcore. Il suffisso core ovviamente è un omaggio alle migliaia di sottogeneri dell’HC-punk negli anni novanta che i gruppi usavano per autodefinirsi; il prefisso covid ha a che fare con un’estetica precisa e ben definita.

Si può definire covidcore qualsiasi forma musicale la cui esistenza è dovuta alla pandemia. È covidcore, ad esempio, ogni disco registrato con mezzi di fortuna che in altra epoca storica sarebbe stato registrato con dispendio di mezzi. Sono covidcore le home recordings degli artisti in lockdown, i diari di bordo dei musicisti su Youtube e i dj-set in diretta Instagram, e più o meno tutto quel che è successo alla musica in questi mesi di pausa.

È un genere diverso da tutti, poco riconoscibile musicalmente, ma per molti versi uguale a tante sottoculture/controculture musicali.

Il covidcore è nato carbonaro, contro-culturale. Nei primissimi giorni è stato un genere musicale indipendente, oltre che intimamente hardcore (video sgranati, vestiti brutti, stanze minuscole, dettagli sordidi) e rigorosamente non-profit.

Nel momento in cui se n’è intravisto il potenziale commerciale, il mainstream ci si è buttato a capofitto e nel giro di una settimana scarsa venivano annunciati concerti-evento di Travis Scott su Fortnite, festivaloni alla Live Aid ma in lockdown, dischi-concept sulla vita in clausura, streaming esclusivi di concerti a pagamento su piattaforme inventate ad hoc e tutto il titanismo zincato che ci ha intrattenuto da marzo a oggi.

La musica è spesso così. Capire dove finisce la poesia e inizia il suo gemello malvagio è un problema quasi insolubile, sepolto da decine di layer metalinguistici. La triste realtà di questi mesi ha scoperchiato il vaso delle inefficienze, delle ingiustizie, delle cose stupide e dei meccanismi di sfruttamento nel mercato musicale: non ho particolare titolo a parlarne, ma oggi i soldi sono pochi e domani saranno anche meno. Così è diventato essenziale monetizzare il più possibile, e il prima possibile, sulle nuove tendenze del pop. È sempre stato fatto, certo, ma con il covidcore il processo è stato veramente velocissimo.

Così, a dicembre, è possibile riempire una classifica dei dischi covidcore di fine anno la cui plausibilità artistica rivaleggia tranquillamente con quella delle classifiche generali: vi segnalo alcuni titoli, roba che magari non avete sentito.

Taylor Swift – Folklore

Non me ne vogliano i numerosi fan se mi sbilancio a dire che questo è un disco orribile, vuotissimo e per molti versi spaventoso – è un’opinione personale, ovviamente. Entra in lista perché è diventato, senza dubbio alcuno, il disco-manifesto del covidcore nella sua incarnazione più mainstream e multinazionale: scritto e registrato a tempo di record, con l’aiuto di un team di collaboratori tra cui spicca Aaron Dessner dei National (già coinvolto in passato con la cantautrice), pubblicato a sorpresa nel luglio di quest’anno e talmente adorato da pubblico e critica da aver già generato un sequel (Evermore, uscito da pochi giorni). Folklore, che musicalmente dà un colpo di spugna alla svolta ultrapop degli ultimi dischi di TS, è davvero il lato oscuro del covidcore: una specie di instant-pop dopato che può assumere forme del tutto imprevedibili, tendenzialmente depresso, per forza di cose intimista (ma quasi mai intimo), pesantemente autoerotico e (con ogni probabilità) del tutto indecifrabile nella prospettiva di doverci tornar sopra da qui a dieci anni. E quindi, per certi versi, un disco di assoluta rilevanza.

Charli Xcx – How I’m Feeling Now

Poi naturalmente non vogliamo essere per forza nemici del mainstream. Ad esempio How I’m Feeling Now, per molti versi un disco dozzinale e molto meno colto di Folklore, è senz’altro tra i miei dischi dell’anno. In pratica Charli ha annunciato – durante il primo lockdown –l’intenzione di fare un disco casereccio, discutendo della musica con i propri follower e lavorando con gli strumenti di cui disponeva sul momento, collaborando in remoto con gente tipo AG Cook e simili, ed è uscita due mesi dopo con un disco intitolato How I’m Feeling Now. Ok, nel senso, un disco come tanti.
La differenza è ovviamente che Charli XCX, a dispetto della sua idea sulla faccenda, è una popstar internazionale e ha deciso comunque di fare una specie di disco in diretta Instagram e nonostante questo il disco è bello.

Nick Cave – Idiot prayer

Musicalmente è un disco gigantesco –Nick Cave da solo al pianoforte rilegge il suo repertorio all’Alexandra Palace, in versioni che spesso rivaleggiano con gli originali. Mi sta sulle balle che ai tempi sia stato venduto come evento iper esclusivo in streaming e di lì a poco ne abbiano annunciata una release al cinema, e verso fine anno sia uscita la registrazione in streaming; ma tutto sommato il Cave recente è abbastanza simpatico da farci tralasciare le questioni etiche.

Sturgill Simpson – Cutting grass

Sturgill Simpson è una specie di superstar del country anni dieci, famoso tanto per la sua bravura quanto perla sua inclinazione modernista – dischi ultraprodotti, suoni moderni, pesanti influenze rock, eccetera. Dovendo concedersi qualche mese di sosta forzata, ha deciso di mettere insieme una big band e ri-registrare brani da tutto il suo repertorio in uno studio casalingo assieme a una big band paurosa, tutto in versione strettamente bluegrass.
Ne sono usciti due dischi lunghissimi, usciti in streaming a sorpresa – ora escono anche le versioni fisiche.

Grandaddy – The Sophtware Slump on a WoodenPiano

Tra le più frequenti incarnazioni del covidcore ci sono registrazioni casalinghe solo-piano o solo-chitarra di dischi che erano usciti in forma molto arrangiata. Tra i vari il mio preferito è probabilmente Piano Salt di Angie Mc-Mahon, parziale revisione intimista di un bellissimo disco uscito l’anno precedente. Ma per questioni di cuore il disco dell’anno è la reinterpretazione integrale solo-piano di The Sophtware Slump, uno dei massimi capolavori del pop rock, che Jason Lytle dei Grandaddy ha registrato e fatto uscire per celebrare il ventennale dell’album.

E insomma, basta così. Ci si ribecca in tempi più propizi.

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