Il rossobrunismo e il FABER, il cantautore preferito da Salvini

Fabrizio De Andre André AndrèAll’interno della bolla di intellettuali del giovedì sera che mi capita di frequentare una delle parole più usate dell’ultimo biennio è rossobrunismo. In brevissimo, si parla di rossobruni in relazione a tutte quelle forme di meticciato ideologico che esprimono concetti di destra usando terminologie, riferimenti e citazioni culturali associate storicamente alla sinistra. Tra i principali esempi nel nostro paese ci sono tutte le supercazzole della classe intellettuale dei Fusaro, tutta quella gente che cita Marx e Gramsci per coprire d’insulti Greta Thunberg e abbandonarsi al sovranismo e alla xenofobia più spinti.

È un processo più diffuso di quel che si pensa, lo stesso per cui oggigiorno un sacco di gente dichiara pacificamente che “il vero fascismo di oggi è l’antifascismo”, sentendosi persino intelligente mentre lo dice. O i leader di Casapound che coprono d’insulti le tizie che vanno a commemorare la marcia su Roma con la maglietta Auschwitzland; un guazzabuglio di ideologie meticce solo apparentemente prive di senso, giustificate dal fatto che i feticci a cui la “destra” e la “sinistra” si rifanno sono vecchi di decine o centinaia d’anni, e che le teorie della sinistra si basano su uno standard di decenza umana e rettitudine di cui nessun essere umano del mondo occidentale sembra essere degno.

È così che può capitare ad esempio che un campione della xenofobia e dell’ordine pubblico come il Ministro dell’Interno Matteo Salvini si sia trovato in più occasioni a sostenere il proprio sconfinato apprezzamento per Fabrizio De André. E del resto De André lo amano tutti. Anche io, per dire. Cioè, in realtà ora lo detesto, ma per un certo periodo l’ho amato e credo che sia stato amore sincero. Il fatto è che De André è una specie di gateway drug necessaria per quasi tutti quelli che dopo cinque o sei anni di oscurantismo vogliono tornare ad ascoltare le canzoncine all’italiana, senza farsi venire il mal di testa a furia di rimorsi di coscienza: la rettitudine percepita del personaggio, la burrascosa biografia e l’impeto antisistema dei suoi testi permettono ai punk e gente simile di ascoltare i suoi dischi senza sentire di aver mandato in culo il loro modo di stare al mondo.

Ci arrivo relativamente tardi, sui 23 anni, primissimi anni duemila; non è che non l’avessi mai ascoltato prima, ma mi scivolava abbastanza addosso. In quel periodo erano successe alcune cose che mi ci avevano portato appresso. De André era appena morto e si era iniziato a creare un fronte compatto di intellettuali il cui principale obiettivo era quello di far salire il livello culturale del personaggio da *grandissimo* a *eterno*; i cantautori iniziavano a concepire i primi tributi post-mortem, poi trasformatisi in una sorta di genere musicale a sé; le tribute band battevano il territorio con un certo accanimento. Nello stesso periodo il cosiddetto indierock stava iniziando a cambiare forma, smettendo i vestiti del punk spastico sporcato di melodia e indossando quelli del neotradizionalismo dei vari Will Oldham, Wilco, Shins e via dicendo. La mia città natale esprimeva un compattissimo consenso nei confronti di questa mutazione, e nel complesso sembrava abbastanza normale scambiare fischi per fiaschi e pensare che Fabrizio De André fosse ancora vivo e lottasse ancora assieme a noi.

A un certo punto qualcuno iniziò a chiamarlo FABER. FABER, a quanto ne so, era il modo in cui lo chiamava Paolo Villaggio. Poi iniziarono a uscire retrospettive, raccolte e roba del genere con quel nome infilato da qualche parte; ci fu un celeberrimo tributo FABER AMICO FRAGILE in cui una trentina di artisti (da Celentano a Vasco Rossi e via andare) eseguirono un pezzo a testa. Diventò un doppio Cd di gran successo e a quel punto diventò troppo tardi per tornare indietro: De André era diventato IL FABER, un pazzoide romantico che resisteva stoicamente al grigiore dell’Italietta del Dopoguerra, muovendosi sempre e comunque in direzione ostinata e contraria, sprezzante del periodo.

La sua portata culturale sembrava pari a quella di Alessandro Manzoni. Magari è così. Noi in Italia abbiamo questo vizio di santificare: per ogni disciplina il Dopoguerra italiano ha espresso un genio, e uno soltanto, il cui operato è destinato a un ciclo interminabile di riletture, riscoperte e ristampe, ognuna basata sull’idea che quell’artista sia sottovalutato. L’equivalente fumettistico del FABER ad esempio è Andrea Pazienza, che non a caso un sacco di fanatici terminali chiama PAZ come fossero stati compagni di bevute. Nella letteratura e forse anche nel cinema c’è Pasolini, che non mi pare abbia soprannomi, ma la cui opera è stata sottoposta allo stesso scrutinio secolare, e peraltro con gli stessi risultati: Pasolini, per via di una riga che scrisse su Valle Giulia, è comunemente considerato un grande ammiratore delle forze dell’ordine. De André è il cantautore preferito di Salvini.

Naturalmente il processo che porta i Salvini ad avvicinarsi al FABER è lo stesso che porta quelli come me ad allontanarcisi. Cinquant’anni di storia italiana hanno fatto sì che “Un Giudice” diventasse un possibilissimo inno della Forza Italia degli anni belli, e tutta la sua opera è stata talmente rimasticata e ributtata sul mercato da renderne quasi impossibile un consumo innocente. Forse sarebbe carino riascoltare un suo disco di tanto in tanto (non tutti e non sempre), ma una volta che apri le gabbie non sai davvero cosa possa venirne fuori.

Intanto ci sono il CRIBER (Cristiano, il figlio di De Andrè) in giro con un tributo al padre, la PFM in giro con un tributo al padre del CRIBER, tutto a buttar benzina dentro a un motore che è sempre sul punto di grippare e che nessuno ha intenzione di far rallentare. Così, tanto per star sicuro, ho deciso che non voglio più sentirne parlare e nego categoricamente di averci mai trovato del buono. Lo so che non è colpa del fottuto FABER, ma non è neanche colpa mia. È colpa di tutti gli altri.

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