Vinicio, la sinistra giovanile e la patchanka

Vinicio Capossela al Vidia in una foto di Eleonora Rapezzi

Oggi i ragazzi che vengono dalla campagna sono aiutati da internet e cose simili: prendono la licenza media nel paesello, arrivano alle superiori in città e non soffrono troppo il clash culturale. Magari qualcuno dei loro compagni fuma già, magari qualcuno tagga i muri alla stazione, non so, ma si vestono comunque tutti uguali con quelle felpe del cazzo con scritto sopra OBEY (non è pazzesco vivere all’interno di una distopia concepita da John Carpenter scambiata per una citazione di John Carpenter, senza per giunta che John Carpenter non ci prenda manco un dollaro?). Ai miei tempi, conoscere la realtà di un liceo cesenate mi sconvolse. La permanenza nella scuola media nel mio paese mi aveva convinto di due cose: 1 ero un genio e avrei combinato qualcosa di importante nella vita, 2 l’unica problematica davvero importante per la vita di un qualsiasi maschio era la figa. La professoressa di matematica smontò la certezza numero 1 con due ore di lezione, e il resto dell’anno scolastico si occupò di brutalizzare la numero 2. Al posto de la figa, per la prima volta nella mia vita adulta fui obbligato a pormi domande sul bene comune, sulla politica. Come potevo pensare alle ragazze in uno dei periodi più bui della storia repubblicana, con Tangentopoli che stava partendo e l’uscita dell’Italia dallo SME e i tagli alla scuola pubblica che da più parti venivano minacciati? Occorreva acquisire una coscienza sociale, organizzarsi, fare gruppo e sfidare il sistema. Oltre a questo, al liceo era sostanzialmente impossibile riuscire a rimorchiare una tipa senza aver dato qualche segnale di impegno politico. Gli schieramenti che si fronteggiavano al liceo erano due. Da una parte c’era il bacino cristiano-cattolico, rappresentato perlopiù da un accrocchio di figli di papà che correvano come rappresentanti d’istituto per una lista identificata come cristiana che raccattava voti in seno alla maggioranza silenziosa e si incontrava venti minuti prima dell’inizio di scuola per fare le lodi. Dall’altra parte spadroneggiava la cosiddetta sinistra giovanile, un gruppo di gente a caso a cui era affidato il (non semplicissimo) compito di traghettare un’idea italiana di sinistra da tutto il bagaglio extraparlamentare a quello che poi sarebbe diventato il Pd. Nei primi anni non capivo esattamente di cosa si trattasse, ma era abbastanza scontato che la kefiah era compresa nel prezzo del biglietto. E comunque se la scelta era limitata a cattocom VS cattodem, tanto valeva buttarsi sulla prima – almeno avrei fatto incazzare mia mamma, e le ragazze si vestivano più abbestia. Vinicio Capossela, detto Vinicio, arrivò in quel periodo, non invitato né particolarmente caldeggiato a restare; un quarto di secolo dopo, non ce ne siamo ancora liberati. Vinicio faceva parte della colonna sonora dello zeitgeist di quell’epoca: dovendo professare a piene mani il loro non-allineamento, gli attivisti under 20 crearono dal niente un pantheon di musicisti che riguardava da vicino loro e solo loro. Il modo più efficace per definire questo pantheon è PATCHANKA: qualunque cosa significhi, soltanto guardare la parola mi fa tornare alla mente tutto quanto. La PATCHANKA è il modello estetico su cui il dissenso di sinistra si è modellato da allora: uscito dalle dinamiche di movimento, poteva definirsi su un’idea generica che inglobasse dosi casuali di commistione, terzomondismo, ecosostenibilità e fisarmonica. La PATCHANKA era un modello democratico di rappresentanza, i Rage Against The Machine e il FABER, lo ska punk dietro ai Doors. Non necessariamente un movimento di nicchia, e anzi ha saputo esprimere numeri importanti: pensate solo a Jovanotti, che nonostante venisse dal roster di Cecchetto con la PATCHANKA ha flirtato per lungo tempo, o al temibilissimo Manu Chao, il cui Clandestino fu ascoltato da milioni di rivoluzionari su base quotidiana per anni (cazzo, se ci ripenso). La PATCHANKA, come ogni grande genere, era completamente indifferente al valore artistico: esaltava obbrobri tipo gli Ska-P mentre teneva bordone ad assoluti geni del contemporaneo come i Ratos de Porao. Era un discorso semplicissimo e complicatissimo al contempo. Vinicio ne fu la declinazione cantautorale, un contentino a chiunque non fosse incline a limitarsi a tre nomi d’archivio attivi dagli anni sessanta (De André, Guccini e un altro a scelta tra Tenco, Fortis, Ciampi e Vecchioni). Nella sua miglior incarnazione era un letale miscuglio tra Paolo Conte e il miglior Tom Waits, due artisti che Capossela per primo sembra aver sempre faticato a comprendere appieno; suppliva con generosi ammiccamenti, canzoni di pregio e una certa capacità di entrare in sintonia col proprio pubblico. Ebbe cura di amministrarsi con assennata prudenza, senza svaccare nel nazionalpopolare e cadere nelle trappole dei vari Sanremo/Festivalbar, diventando un pezzo da novanta in tempi tutt’altro che sospetti. Oggi la sua roba può musicare i panel di Confindustria quanto le raccolte di viveri per il Mato Grosso. Non so se abbia mai avuto cura di schierarsi politicamente, magari sì, ma è sempre stata più che altro una questione di olfatto.

Una volta rischiai anche di vederlo dal vivo: ero ad un circolo ARCI di Cesena che per sfuggire ai luoghi comuni aveva deciso di chiamarsi Intifada. La sera stessa Vinicio, chiamato rigorosamente solo per nome, suonava a Cesena. L’Intifada era STRAPIENO e non capivo per quale motivo lo fosse, e qualcuno mi raccontò che fosse abitudine, per Vinicio, fare un salto all’Intifada dopo le date cesenati e forlivesi e suonare qualche pezzo. I tizi che erano con me insistettero per rimanere finché non si fosse palesato, finchè a un orario fetido (tipo l’una di notte in un giorno feriale, tre ore tonde passate a bere birra nella pia illusione di poter vivere il giorno dopo) il tizio incaricato di guidare si convinse che forse, quella sera, Vinicio dall’Intifada non sarebbe passato, e che se dovevamo farne una tale malattia tanto valeva comprare i biglietti per il concerto vero e proprio.

Da quando entrai al liceo sono passati venticinque anni e io li sento davvero tutti addosso. Le ragazze del giro sinistra giovanile hanno quasi tutte figliato, in molti casi coi leader di allora – i quali sono corsi incontro al loro destino diventando, a seconda, grandiosi professionisti della Nuova Classe Agiata Italiana o benzinai. Tutto il resto è morto e sepolto, la Democrazia Cristiana, le associazioni di sinistra infiltrate nelle scuole (credo), il PDS, tutto il rock, tutto il cantautorato italiano, tutti gli squat romagnoli di quell’epoca, svariati squat bolognesi, qualche professore e alcuni tossici che bazzicavano il liceo. La PATCHANKA resiste indisturbata, con Vinicio ancora protagonista. I numerosi seguaci del genere continuano a trovarsi una volta l’anno in piazza San Giovanni a Roma, ascoltano Teresa De Sio, ingoiano un litro e mezzo di Tavernello e agitano le loro bandiere. Io mi limito a fare un segno sulle palline rosse quando entro in cabina, nella speranza che non ci sia Vinicio in filodiffusione.

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