Associazione mafiosa, condanne pesanti: nella Bassa il cervello del clan Femia

In totale oltre 170 anni di carcere, è la prima sentenza in regione per il 416 bis: i giudici hanno accolto la ricostruzione dell’accusa che fa riferimento a metodi ‘ndranghetisti. Il sistema guadagna milioni di euro dalle slot truccate. Il capo arrivò a Sant’Agata nel 2002

Il gioco d’azzardo con slot machine truccate era il core business del clan Femia

«Io non sono un boss né un maffioso in quanto è riscontrato da oltre 100 magistrati che in 30 anni mi hanno indagato per maffia e sono sempre stato assolto». Usava con convinzione la doppia effe nella lettera che inviò nel 2015 dal carcere di Parma alla nostra redazione per lamentarsi di quello che avevamo scritto. Il 22 febbraio scorso, a distanza di due anni da quella lettera, il tribunale di Bologna ha condannato in primo grado il 56enne Nicola Femia, detto Rocco o il corto, a ventisei anni e dieci mesi di carcere ritenendolo colpevole del reato previsto e punito dall’articolo 416 bis del codice penale: associazione di tipo mafioso, con una effe. E se la sua è la condanna più alta, addirittura superiore ai 24 anni chiesti dall’accusa, tra le ventitré sentenziate nel processo Black Monkey, è un indizio sul suo ruolo: secondo i pm della direzione distrettuale antimafia di Bologna (sostituto procuratore Francesco Caleca) era a capo di una associazione di stampo ‘ndranghetista che aveva il suo core business nella gestione truccata di slot machine e giochi online (1.500 le schede contraffatte in circolazione), in Emilia- Romagna e non solo. I proventi, sempre secondo la Dda, venivano in seguito riciclati in altre attività come alberghi o con l’acquisto di case, auto e quote bancarie, attraverso società fittizie create ad hoc e con la complicità di imprenditori del settore e prestanome.

Il cuore finanziario del clan gravitava attorno Bologna e verso l’Emilia ma il cervello aveva radici ravennati: Femia e la famiglia vivevano da tempo tra Sant’Agata sul Santerno e Conselice. E nella Bassa vivevano anche altri sei dei condannati. Il presunto boss è originario di Marina di Gioiosa Jonica (Reggio Calabria) ma nel 2002 si trasferì a Sant’Agata, dove dal 1998 viveva già il fratello Franco detto il bersagliere, per scontare un provvedimento di obbligo di firma.

Le indagini sono partite nel 2010 dalla denuncia di un immigrato residente a Bologna, che dopo esser stato pestato da componenti dell’associazione per una questione di debiti ha raccontato tutto alle forze dell’ordine. A gennaio 2013 la prima retata: una trentina di arresti, tra cui anche il capo, per custodia cautelare e beni sequestrati per un valore di 90 milioni di euro. Il processo si è chiuso dopo quasi tre anni di dibattimento: Femia rispondeva, oltre che di associazione mafiosa (contestata ad altre tredici persone), anche di altri reati tra cui estorsione, frode informatica, intestazione fittizia di beni, corruzione. Mano pesante dei giudici anche nei confronti dei figli (dieci anni e tre mesi per Guendalina, quindici anni per Rocco Maria Nicola) e del genero (dodici anni e due mesi a Giannalberto Campagna). In totale con gli altri diciannove condannati si arriva a oltre 170 anni di reclusione.

Tra i presunti fiancheggiatori locali del sodalizio spicca la coppia composta da un brigadiere della guardia di finanza di Lugo e il commercialista Ettore Negrini di Massa Lombarda. Per il secondo è arrivata la condanna a sette anni mentre il primo è tra i sette che scelsero l’abbreviato arrivando a un’assoluzione. Il militare era accusato di aver messo al corrente Femia, direttamente o attraverso Negrini (all’epoca presidente della squadra di basket di Massa Lombarda di cui Lo Monaco era allenatore), di notizie relative all’inchiesta o ad accertamenti fiscali.

Mai finora in Emilia-Romagna era arrivata una sentenza per questo reato e con queste dimensioni. Il peso di questa sentenza, che in molti hanno definito storica, sta infatti proprio nell’aver accolto l’impianto accusatorio della procura: nella requisitoria il pm ha insistito su un potere intimidatorio autonomo del gruppo, tipico a suo avviso delle nuove formazioni di ‘ndrangheta, presenti nelle regioni del Nord. Caleca ha tratteggiato il sistema Femia, parlando di centri di potere, rapporti con le associazioni ’ndranghetiste, forza intimidatoria, rincorsa alla ricchezza e attenzione agli organi di stampa per come venivano descritti i componenti del gruppo. Così è stato confermato il 416 bis, ribaltando le precedenti pronunce dei giudici sul caso Black Monkey. Nel processo in rito abbreviato relativo alla stessa inchiesta – tenutosi nei confronti di altri imputati negli anni passati – pur essendo state pronunciate molte condanne (otto sono arrivate alla conferma della Cassazione), era tuttavia caduta l’accusa di associazione mafiosa e tutte le aggravanti mafiose.

Questi tutti i nomi delle condanne di primo grado: Francesco Agostino: 7 anni e 2mila euro di multa. Domenico Cagliuso: 15 anni e 6mila euro. Giannalberto Campagna: 12 anni e due mesi. Manuele Cappiello: 3 anni e 600 euro. Daniele Chiaradia: 3 anni. Massimiliano Colangelo: 4 anni e 3mila euro. Luigi Condelli: 8 anni e 9 mesi. Filippo Crusco: 3 anni. Letizia Cucchi: 2 anni e 600 euro. Guendalina Femia: 10 anni e 3 mesi. Nicola Femia: 26 anni e 10 mesi. Rocco Maria Nicola Femia: 15 anni e 6mila euro. Viktoriya Khmelevskaya: 2 anni. Calogero Lupo: 5 anni. Giuliano Maccari: 4 anni. Ettore Negrini: 7 anni e 2 mesi. Virgilio Petrolo: 7 anni e 2mila euro. Massimiliano Rizzo: 3 anni e 6 mesi. Rosario Romeo: 9 anni. Teresa Tommasi: due anni e sei mesi e 800 euro. Guido Torello: 9 anni. Valentino Trifilio: 8 anni e 9 mesi. Salvatore Virzì: 7 anni e tre mesi.

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