La leggenda dei Pere Ubu

Dal debutto capolavoro del 1978 ai giorni nostri:
al Bronson una band chiave del rock alternativo

In quel sibilo che attacca il loro primo leggendario album – considerato da certa critica non solo come uno dei dischi migliori degli anni Settanta, ma di tutto il Novecento – che apre l’ingresso al riff di una chitarra adrenalica per un pezzo già marchiato a fuoco dal furore trattenuto della voce dell’imponente (in tutti i sensi), carismatico, fin quasi mitologico, leader della band, c’è già tanto di quello che saranno e sono tuttora i Pere Ubu.

C’è l’inquietudine, la vena malata di un gruppo che verrà ricordato come uno dei più grandi, se non il più grande, della scena post-punk e new wave americana, che ha portato avanti negli anni in maniera sempre molto coerente, pur nei leggeri cambiamenti stilistici, un’idea di musica senza compromessi ma in grado di unire le atmosfere industriali della natìa Cleveland, la furia del punk, la sperimentazione del “post”, certa orecchiabilità del pop, anche la psichedelia più allucinata, il suono del synth utilizzato in maniera eccentrica tanto da fare scuola. Il tutto seguendo la straripante personalità, teatralità, di David Thomas, che è appunto il leader di cui sopra, e anche colui che porta ancora avanti il marchio, unico elemento rimasto tra i fondatori del gruppo nella line up odierna, quella che arriva (il 21 febbraio) per la seconda volta al Bronson di Madonna dell’Albero, a Ravenna, dopo il concerto (quasi troncato dalle paturnie dello stesso Thomas) del 2007. Ci arriva con un nuovo album fresco di stampa, che è praticamente una del tutto rivisitata colonna sonora di un horror B-movie del 1962, Carnival Of Souls, da cui prende il titolo, e in cui in qualche modo Thomas e soci ritornano agli esordi nelle atmosfere, pur non abbandonando del tutto le sonorità elettroniche di Lady From Shanghai, il precedente album di solo un anno prima.

L’esordio, in particolare, cui si faceva riferimento anche nelle prime righe di questo articolo, è The Modern Dance, capolavoro di rock alienato che nel 1978 inaugura un trittico che ogni appassionato di musica meno allineata dovrebbe custodire in bella vista nella propria discografia e che è composto anche da Dub Housing (sempre 1978) e New Picnic Time (1979), omaggio a una delle più esplicite ispirazioni di Thomas, che è il Captain Beefheart di Trout Mask Replica.

Quelle vette non verranno più avvicinate, ma il percorso discografico dei Pere Ubu resta davvero di quelli cui portare grande rispetto, con alcuni dischi che ascoltati oggi restano una gran bella esperienza: dal forse troppo sottovalutato Pennsylvania (1998) al debutto nel nuovo secolo molto, ma molto, ispirato di St. Arkansas (2002) fino a quello che è probabilmente l’ultimo colpo da non perdere, sparato nel 2006: l’ipnotico, intenso, Why I Hate Women, quindicesimo disco di una carriera che non pare essere ancora destinata a interrompersi.

Nel mezzo, alcuni progetti solisti e paralleli, con vette toccate da David Thomas insieme ai fantomatici Two Pale Boys. Varrà la pena andare al Bronson, lo si sarà capito, anche solo per (ri)vederlo su un palco, questo orco buono del rock americano.

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