L’autore di serie tv scelto da Netflix: «Il mio lavoro? Tra cineasta e scrittore…»

Il ravennate Alessandro Fabbri alle prese con la trasposizione di Fedeltà. «Le mie preferite? Breaking Bad e Mad Men»

A. Fabbri Premiere 1994

Fabbri con Stefano Accorsi e Miriam Leone durante la premiere di 1994

Sono partite nei giorni scorsi le riprese di Fedeltà, la nuova serie originale italiana di Netflix tratta dall’omonimo romanzo del riminese Marco Missiroli. La serie – prodotta da BiBi Film e in arrivo entro la fine del 2021 – è stata scritta dal ravennate Alessandro Fabbri (con Elisa Amoruso e Laura Colella), sceneggiatore di fama con già una vasta esperienza di scrittura per il cinema e la tv, dal Nastro d’argento per Il ragazzo invisibile di Salvatores fino al successo della trilogia 1992-1993-1994 su Sky e al premio Flaiano nel 2020 per la serie Il processo.

Lo abbiamo raggiunto per una chiacchierata telefonica sul mondo delle serie tv, sempre più protagonista delle visioni casalinghe con la sempre più rapida diffusione delle piattaforme in streaming e la concomitante chiusura forzata dei cinema.

Alessandro, com’è nato il progetto Fedeltà?
«Sono stato ingaggiato dalla produzione Bibi Film e da Netflix con il compito di scrivere l’adattamento del romanzo di Missiroli, che tra l’altro non avevo ancora letto. È stato divertente, anche perché ho affrontato la lettura e il lavoro sul tema della fedeltà insieme a quella che stava per diventare mia moglie (Laura Colella, ndr). E il romanzo ci è piaciuto proprio per il tema, in grado di parlare davvero a tutti: è uno spunto per interrogarsi su che cosa sia davvero la fedeltà».

E la serie sarà “fedele” al romanzo?
«Lo sarà nel nocciolo, nel cercare di capire quanto essere fedeli con se stessi possa per esempio essere compatibile con la fedeltà di coppia. C’è stato molto da ragionare, per cambiare il linguaggio, entrare nella psicologia dei personaggi, tradurre i loro pensieri in parole gesti e azioni. Ma non posso anticipare nient’altro».

Sei partito come scrittore, poi hai lavorato a sceneggiature per cinema e tv e con 1992 sei stato probabilmente uno dei primi showrunner d’Italia. Cosa rispondi a chi ti chiede che lavoro fai?
«Il termine più corretto e ampio è sceneggiatore, che è una parola che racchiude più mansioni. Dopo l’arrivo di piattaforme come Netflix e Amazon è stata data un’impronta più holliwoodiana alla scrittura, che ha assunto un ruolo centrale. Adesso il mio ruolo è quello di headwriter, “capo scrittura”. Per Fedeltà, per esempio, è previsto che io debba seguire la serie anche durante le riprese, se non tutti i giorni, comunque con un dialogo continuo sia con Netflix che con la produzione, che con i registi. Si tratta di una sorta di coronamento di un progetto legato alla scrittura che in Italia fino a pochi anni fa non esisteva. Diciamo che ora possiamo definirici come una via di mezzo tra cineasti e scrittori…».

Non più quindi i classici sceneggiatori alla Boris, che stavano alla larga dal set e non si facevano trovare dal regista…
«Beh, diciamo che anch’io quando posso prendo il computer e me ne vado a scrivere fuori, in giro, magari in un bel posto (ride, ndr). In epoca di smart working, poi è ancora più facile…».

Quanto cambia il lavoro tra scrivere un romanzo e una serie tv?
«L’ispirazione è sempre la stessa, poi però il lavoro si biforca grandemente. Nel romanzo ti prendi il tuo tempo, gestisci il testo con grande elasticità e l’editore lo aspetta già completato, senza intervenire. Nella serie tv tutto è cadenzato invece dai ritmi produttivi, con documenti e scritti che vanno raffinati nel tempo. Inizialmente si scrive la storia di tutti gli episodi e il percorso dei personaggi, poi parte un calendario serrato per scrivere i copioni, con stesure in corso d’opera. Una cosa a metà tra esigenze artistiche e industriali. E durante lo sviluppo si parla molto spesso con i produttori, i registi, ci possono essere modifiche in corsa…».

Sembra anche molto stressante…
«È stressante, sì, ma lo stress passa in secondo piano con il requisito base, la fiducia. Se c’è, spesso diventa invece un lavoro esaltante. Anche perché sei consapevole di essere al centro di un progetto su cui vengono investiti anche molti soldi e ogni cosa che scrivi avrà un impatto».

In questo periodo di sale chiuse, puoi definirti un lavoratore privilegiato del mondo della cultura. Come la stai vivendo?
«Tutto il sistema audio-visivo ha subìto una bella botta, ma in effetti sì, con lo streaming casalingo si è capito abbastanza in fretta che il modo per tenerlo vivo era proprio puntare su noi sceneggiatori. L’unico “settore”, forse, in grado di far procedere i lavori in questo periodo di pandemia…».

E quanto la pandemia sta influendo anche sulle riprese? Penso a dettagli come quelli legati alla possibilità di utilizzare le comparse…
«Sul set ci sono controlli rigorosissimi per tutti, ma si è trovato un modello di lavoro che permette di andare avanti nel lavoro, non ho saputo di veri e propri intoppi in questo senso. Certo, alcune decisioni devono essere più ragionate e c’è un grosso sforzo organizzativo a carico dei produttori in particolare che prima non c’era».

Perché ancora non vediamo film o serie tv con attori che indossano le mascherine? Ci stai pensando?
«Per quanto mi riguarda non riesco ancora a creare qualcosa ambientato in epoca Covid, ma sono sicuro che esistono sia progetti che serie tv che racconteranno questo periodo. Certe cose comunque non me le voglio dimenticare, tipo le code fuori dai supermercati del primo lockdown, quando si aveva quasi paura che finissero le scorte, come in un film di fantascienza di serie B. In futuro probabilmente ci scriverò qualcosa, ma al momento no, non l’ho ancora metabolizzato. Sperando che resti solo un periodo isolato».

Da scrittore di serie tv, quali serie tv ti hanno cambiato la vita? E quali consigli tra le più recenti?
«I due pilastri secondo me restano Mad Men e Breaking Bad. Sottolineando poi come anche Better Call Saul, nata da un personaggio minore di Breaking Bad, sia arrivata a quei livelli. Poi, andando su visioni più recenti mi è piaciuto molto Succession, su Sky, scritta benissimo, molto divertente. Segnalo poi Mindhunter e mi piace tanto anche The Crown».

E una serie tv che ti ha invece deluso? Che avresti scritto totalmente diversa?
«Mi viene in mente la recentissima The Undoing. Mi ha illuso. Mi stava piacendo molto, ma il finale ha rovinato un po’ tutto, non mi ha convinto per niente, ma ora non voglio fare spoiler…».

Spesso nelle serie con più stagioni gli sceneggiatori sembra stiano quasi improvvisando, legati magari a logiche non solo artistiche. Succede?
«Diciamo che capire quali personaggi o storie stanno avendo più interesse tra il pubblico può far cambiare il lavoro in corsa. È capitato anche a noi in 1994 in qualche modo, quando abbiamo deciso di sovvertire regole che noi stessi avevamo fissato nelle due stagioni precedenti».

Quindi le aspettative del pubblico hanno un peso…
«Credo che devi essere sempre consapevole del target a cui ti stai rivolgendo. Ci vuole sempre comunque la giusta misura, nel seguire il riscontro immediato. Sarebbe bello anche in Italia riuscire a fare serie che riescano ad andare avanti stagione dopo stagione. E considerando i passi in avanti fatti finora credo che ci potremo arrivare. Ora si ragiona già a livello globale. Penso a Fedeltà, per esempio, che uscirà in contemporanea in 190 paesi del mondo. O a Il processo (serie creata da Fabbri nel 2019, ndr) che è andato benissimo in Sudamerica, tra i mercati più fiorenti per Netflix».

Le serie tv sono anche sempre più inflazionate. Come vedi il loro futuro?
«Penso che si sarà sempre più liberi di sperimentare forme diverse, ora che per la maggior parte sono di fatto saltati i normali palinsesti televisivi. Vedremo, la mia è una previsione al buio».

Ormai vivi da anni a Roma, che rapporto hai con la “tua” Ravenna?
«Peccato non essere riusciti a diventare capitale europea della cultura nel 2019 (progetto a cui lo stesso Fabbri era stato coinvolto in fase di ideazione, ndr). Il legame è più forte che mai, ho ancora casa a Ravenna. E starci lontano ti fa apprezzare ancora di più la città».

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