Pieralberto Valli e quel disco lungo un anno. «Ogni album è come un atto di fede»

L’originale progetto del cantautore cesenate: «La Romagna ha un potere evocativo enorme: andrebbe solo ascoltata»

Pieralberto Valli

Pieralberto Valli in una foto di Marco Trinchillo

Il cantautore cesenate (ma anche scrittore, traduttore e insegnante, ora di stanza a Roma) Pieralberto Valli è un nome di culto della scena alternativa italiana, grazie al suo lavoro nei Santo Barbaro (un progetto di folk sperimentale condiviso con Franco Naddei partito nel 2007 e durato poco più di un lustro) e a un disco di debutto (Atlas, nel 2017) in grado di unire il mondo del cantautorato colto a quelli del rock e dell’elettronica.

Dallo scorso gennaio è tornato a pubblicare canzoni. Canzoni che comporranno il suo nuovo album, Numen, un disco in divenire, che impiegherà un anno esatto per svelarsi completamente (al momento sono cinque le tracce pubblicate, nei video qui sotto).

Com’è nata questa idea?
«Ho sempre scritto e continuo a scrivere album. Mi serve l’idea globale di un suono, un colore, una materia per poter iniziare a scrivere. In questo caso l’idea mi è stata commissionata da Città di Ebla (la compagnia teatrale forlivese che organizza il festival Ipercorpo, dove Valli suonerà il 30 maggio, ndr) per uno spettacolo che abbiamo portato in scena a maggio 2018 sul tema del padre e del sacro. L’idea di diluire le uscite è venuta più tardi ed è dovuta alla presa di coscienza che presentare un corpo nella sua interezza è oggi fonte di sconcerto. Allora si presenta prima un dito, poi un braccio, poi un occhio e un pezzo di cuore. Nell’era della tecnica e della superficie, l’uomo nella sua complessità è un corpo osceno. Per la musica è lo stesso: non ci sono enzimi perché possa essere assimilata».

Dai primi pezzi di questo tuo nuovo disco continua ad affascinarmi la tua ricerca sonora, paragonabile in Italia forse solo a Iosonouncane, se ci limitiamo a considerare l’ambito “canzone”. Quali sono i tuoi modelli, se ce ne sono?
«Di questo ti ringrazio. Fatta eccezione per Ferretti, ho sempre guardato all’estero: Jason Molina, Sparklehorse, per dire, ma anche Blonde Redhead, Shannon Wright, Radiohead, ovviamente. In generale mi interessa chi usa la musica per la stessa funzione che cerco io. La musica ha tante funzioni possibili. Ci sono musica da festa, musica da ballo, musica da sottofondo, musica per pensare e per non pensare. Io inseguo l’infinito tunnel dell’abisso, il suono del contatto con la pancia, il ritmo ancestrale della devozione di chi percuote un tamburo perché alza gli occhi al cielo mentre si accendono le stelle».

Componi in solitudine? Ti manca il confronto dei Santo Barbaro?
«L’atto creativo è sempre stato un atto solitario per me. Questo perché è frutto di un atto devozionale. La musica è un modo per mettersi in contatto con un flusso verticale. Ci sono tanti modi per creare questo contatto, ma la composizione è l’unico che conosco. Di conseguenza deve essere fatto al riparo da occhi esterni. È come mettere le mani in un flusso che collega la terra al cielo. Non sai mai cosa ti rimane tra le mani. È un tizzone ardente, che poi tu puoi plasmare, fino a quando non si raffredda. A quel punto puoi solo contemplarlo, accettarlo o buttarlo via. Il lavoro di cesellatura con Naddei (suo compagno nei Santo Barbaro e attuale collaboratore, ndr) rimane un punto fondamentale, perché significa decorare il tuo tizzone come meglio credi. Ma il tizzone è già lì, e non è nemmeno tuo. Arriva da qualche parte».
Quanto ha influito Roma nel tuo percorso solista e quanto ti ha influenzato invece la tua crescita in Romagna?
«Roma è un magnete che catalizza l’energia che la circonda e se ne nutre, ma ha su di sé uno spesso strato di sale. È tanto santa quanto puttana. Di sicuro mi ha aiutato viverci quando è uscito il mio primo album ma, non essendo la mia patria spirituale, non è adatta alla scrittura. A Roma non avrei potuto scrivere niente. Mi sarebbe stata utile per allacciare contatti, per fare più concerti, per conoscere più persone influenti, ma onestamente sono tutte cose che mi importano meno di zero. Cerco di affondare le radici dove la terra ha nutrimento. Le mie radici sono qui, in questo lembo di terra tra l’Adriatico e gli Appennini. Forse è arrivato il momento di superare il nostro provincialismo: questa terra ha un potere evocativo enorme, una eredità pre-cristiana profondissima. Andrebbe solo ascoltata».

Ci sono stati in questi anni apprezzamenti di critica o pubblico che ti hanno fatto particolarmente piacere? Cosa ti piacerebbe passasse, come “messaggio”, dalla tua musica?
«Sì, la critica mi ha sempre voluto molto bene, ma so bene che il mondo guarda da un’altra parte e non me ne curo. Non scrivo per i critici e nemmeno per firmare autografi. Come dicevo prima, la musica che faccio ha una funzione, e quella funzione è rimanere in disparte, ma attraversare chi desidera essere attraversato. Ci sono persone che mi seguono da tanti anni, ci sono persone che si sono lasciate attraversare da quello che faccio, e mi hanno fatto da specchio. Ci sono persone che mi hanno presentato i propri figli, che mi hanno aperto la porta di casa solo per la musica che faccio. Questo è il senso di tutto. Non ce ne sono altri. L’apprezzamento dei critici va bene per fare un quadretto in salotto, ma non colora l’orizzonte. Non ho niente da insegnare; cerco solo di tenere in vita una cultura estinta, la memoria di un passaggio. E ogni album, ogni concerto, è un salto nel vuoto, un atto di fede. In una fase storica di grande paura e chiusura, in cui il microcosmo di ciascuno viene santificato e difeso, forse il messaggio è semplicemente questo: non temere di connettere il proprio cordone ombelicale a quello dell’altro, non temere di essere scoperti vulnerabili ma, al contrario, rendere la propria nudità un vanto. Non aver paura di sentire, di allagare ed essere allagati».

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