La provincia di Giacomo Toni: «Nelle mie canzoni c’è la nebbia della Bassa»

Il pianista-cantautore presenta il nuovo disco al Cisim di Lido Adriano: «Un’alternativa ai miei colleghi indie che inseguono il mainstream»

Giacomo Toni 2352Il 34enne forlivese Giacomo Toni è probabilmente il più noto cantautore romagnolo, grazie in particolare a una lunga serie di concerti, spesso sopra le righe, all’insegna del suo ormai mitologico “piano punk cabaret”. Il 27 ottobre esce il suo nuovo album, Nafta, a distanza di ben quattro anni dall’ultima volta, un piccolo evento quindi che verrà celebrato venerdì 20 ottobre (dalle 21, in apertura il cantautore forlivese Giulio Cantore) con il concerto di presentazione ufficiale al Cisim di Lido Adriano.

Giacomo, come è nato questo disco di così lunga gestazione?
«Innanzitutto sono d’accordo con te (il riferimento è alla nostra recensione a questo link, ndr) quando dici che dopo quattro anni d’attesa mezz’ora di musica è un po’ troppo poca, ma abbiamo scartato volutamente molto materiale, abbiamo deciso, a differenza del passato, di raccogliere solo pezzi (nove in tutto, ndr) che stessero coerentemente insieme, che avessero un midollo spinale comune. Sono sempre stato un autore che va di palo in frasca, ma questo è stata forse la pecca dei miei dischi precedenti. Non escludo così di uscire invece già tra un anno con una raccolta di ballad…».

CopertinaQuesta è invece una raccolta di canzoni rock “sporche”, suonate come fosse un unico concerto…
«L’obiettivo era un po’ quello, di suonare meno patinato rispetto alle mie registrazioni passate, di tirare fuori dallo studio quello che è il nostro modo di fare musica dal vivo, errori compresi. Fondamentale è stato il supporto di Franco (Naddei, lui stesso musicista e produttore artistico di Nafta, ndr), che mi ha fatto ricredere rispetto alle mie convinzioni sull’inutilità di un produttore artistico esterno: è stato bravo a tirare fuori la mia parte “punk”, mi sono fatto tradurre da lui, e in particolare sono orgoglioso di come sia riuscita la sezione fiati nel disco, molto contemporanea».
Avete quindi registrato tutto dal vivo?
«Sì, riprese live in una stanza, con Franco in regia».
Come nasce invece il tuo modo di stare sul palco, diciamo così, piuttosto esuberante?
«In modo abbastanza casuale, per bisogno di farmi ascoltare: mi sono sempre impegnato a non fare il pianista dimesso, languido e introspettivo. Cre­do che sia io a dovermi occupare del tempo libero della gente, non so se mi spiego, e non la gente a doversi occupare del lato privato dell’artista. Mi è sempre piaciuto un modo di fare giocoso, quasi pianobaristico, con tutto il rischio di passare sempre per un “cazzone”».
Ecco, capita di essere fraintesi o di finire, per così dire, male?
«Succede tutte le sere, in effetti. Ricordo agli albori un concerto a Napoli in cui feci una canzone anti-leghista che invece venne vista da alcuni presenti come una presa in giro dei meridionali. In generale sono consapevole a volte di esagerare, l’ironia e il sarcasmo vengono spesso travisati dai presenti…».

Giacomo Toni

Giacomo Toni in una foto di Eleonora Rapezzi

Il tuo successo pare essere nato grazie al passaparola per i tuoi concerti ed essere concentrato soprattutto in Romagna, hai qualche rimpianto?
«In realtà giro comunque sempre tutta Italia e ho alcune roccaforti di fan a Isernia e Savona, però sì, hai ragione, ma io ho puntato sempre e solo sulle esibizioni dal vivo, ho avuto poche esperienze coi discografici e sono state orribili: ragionano solo in termini commerciali e li capisco, ma a me non è mai interessato questo aspetto. Anche per questo sono stato anni senza fare un disco e ora ho deciso di farlo per una piccola etichetta con cui so di essere sulla stessa linea (la ravennate Brutture Moderne, ndr): con Checco (Giampaoli, dell’etichetta, nonché musicista dei Sacri Cuori, ndr) abbiamo firmato il contratto su un tovagliolo di carta dopo una grigliata a casa sua».
I testi sono inevitabilmente un valore aggiunto della tua musica, come nascono e quanta influenza letteraria c’è?
«Deve sempre esserci un appoggio letterario, non tanto per piazzare citazioni colte a caso, ma per aiutarmi nella scrittura: raramente i testi mi escono velocemente, anche perché ho davvero poca fantasia e quindi per creare un contesto credibile devo sempre fare una sorta di ricerca letteraria. In questo disco nuovo per esempio c’è un flusso di coscienza alla Céline ne “Il porco venduto che sono”, o la Milano di Gadda».
E quanto c’è di autobiografico?
«Beh, al centro massaggi cinese ci sono stato veramente prima di andare a San Siro, come in “Chinatown”, e i mestieri di cui parlo sempre in “Il porco venduto che sono” li ho fatti veramente. In generale c’è un po’ di vita mia e ci sono personaggi che ho visto o che mi hanno raccontato, o anche solo che ho incontrato in un bar».
C’è anche la Romagna, mi pare.
«Sì, in questo disco ce n’è parecchia, in particolare nell’ambientazione delle mie storie: mi sono immaginato un novembre nebbioso nella Bassa tra Forlimpopoli e Ravenna. Ho cercato comunque personaggi caratteristici della provincia, non solo romagnola».

Come ti sei avvicinato al pianoforte? Quanto è stata forte l’influenza di Paolo Conte, che hai omaggiato anche da poco con il progetto Gli Scontati?
«Sono pianista fin da bambino, l’ho studiato al conservatorio, poi da ragazzo ho scoperto che fare al pianoforte “Light my fire” dei Doors mi aiutava con le donne, così ho iniziato a suonare rock ma ho studiato anche jazz e poi sono arrivato alla canzone d’autore, ho approfondito i cantautori e sì, Conte e Jannacci in primis, anche se penso che in quest’ultimo disco non ci sia molto di Conte, forse solo a livello testuale: lui è un maestro ad  ambientare la canzone, a darle un paesaggio ben preciso, il migliore in questo ambito, per me è il cantante dei paesaggi…».
Mi pare di notare una certa avversione da parte tua verso il mondo indie italiano, di cui dovresti in qualche modo fare parte…
«Ci ho ragionato molto su questo fatto: come ti ho detto non sentivo l’esigenza di fare un disco, non me ne può fregare di meno del mercato discografico. Poi mi sono accorto che la mia poteva essere un’alternativa al suono istituzionale contemporaneo dei miei “colleghini”, quelli che dovevano essere loro l’alternativa ma che hanno iniziato a voler diventare mainstream. La ricerca è un’altra cosa, chi fa musica di ricerca ha l’obbligo di creare alternative. Di bravi ce ne sono pure, penso ai miei amici Camillas, ma poi mi capita di ascoltare però anche tanta roba inutile. Ecco, per esempio, ultimamente mi hanno passato Coez e quando sento che canta: “Da ragazzino ero bravo coi Lego E cazzo è chiaro che adesso mi lego” (da “Faccio un casino”, ndr) noto una totale mancanza di senso del ridicolo. Allora ho pensato che ci sarà qualcuno che la pensa come me e ho deciso di dover offrire a questo qualcuno un’alternativa».

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