Tra i profughi accampati sotto i portici Un 20enne: «Sempre cacciato, impazzirò»

I pakistani: «I talebani ci massacrano, ho attraversato Iran e Turchia a piedi». E c’è anche il cristiano respinto da un prete in stazione…

Muovo le dita dei piedi intorpidite per riscaldarmi, ho la punta del naso informicolita dal freddo. Sono solamente due ore che sono qui sotto i portici di via Berlinguer a Ravenna a parlare con loro e l’aria gelida di questo rigido autunno mi entra già nelle ossa e nelle vene. Eppure loro rimangono qui tutta la notte, giorno dopo giorno, da settimane. Loro sono un gruppo di una ventina di pakistani. Hanno volti e storie molto diverse, ma tutti hanno una cosa in comune: fuggire dal Pakistan martoriato da un guerra civile in cui continui attentati seminano il terrore.

Mi vengono incontro, sono curiosi. Ogni nuova persona è per loro una speranza di uscire da questo limbo in cui si sentono intrappolati. Il limbo di chi non è ancora un rifugiato, ma nemmeno un clandestino. Il limbo di questa eterna attesa (vedi articoli correlati). Comunichiamo a fatica, non sanno molte parole d’inglese, mi offrono come segno di amicizia una manciata di semi di anice da masticare, rovesciandomeli sul palmo della mano da un sacchetto simile a quelli delle caramelle che vendono al bar.

Rsai è la prima parola che imparo in lingua urdu. Non so come si scriva, ma so cosa significa: sacco a pelo. È la cosa più preziosa che hanno, che gli permette di aspettare l’alba di un altro giorno. L’altro oggetto, che ognuno di loro custodisce come un cimelio e che mi mostrano in sequenza con orgoglio, è un foglio scritto in italiano con la loro fotografia. È la domanda per la richiesta di asilo politico, la cosa che possiedono che assomiglia di più a un documento. «Documento», sanno che la loro vita dipende da quel foglio e lo tengono tutti nella tasca interna del giubbotto e non se ne separano nemmeno mentre dormono.

«In Pakistan comanda la polizia. Non difende le persone, ma impone il suo potere e se vuoi che ti lascino in pace devi pagargli delle tangenti», racconta Rachid, che nel Punjab lavorava come tassista. «Guarda», dice mostrandomi le mani segnate da cicatrici, «non avevo i soldi che mi chiedevano come tangente, mi hanno legato a testa in giù, mi hanno picchiato, e mi hanno lasciato lì appeso finchè mio fratello mi ha tirato giù. Quel giorno ho deciso che sarei fuggito dal Pakistan».

Atizaz ha 32 anni e il volto scavato: anche lui, come i suoi compagni, dimostra molti più anni di quelli che ha a causa di quella vita di stenti. «Sono musulmano sciita e i talebani ci stanno massacrando in tutto il
paese. Sono dovuto fuggire. Ho attraversato tutto l’Iran e la Turchia a piedi. Sono arrivato in Grecia e ho camminato ancora». Tutta quella strada a piedi? Chiedo. «Foot, foot» ripetono altri due indicandosi le scarpe. Anche loro hanno camminato per due o tre mesi consecutivi prima di arrivare in Europa. «In Serbia sono riuscito a prendere un treno e sono arrivato in Italia passando per l’Austria». Hussain è il più vecchio del gruppo, ha 50 anni, è vestito con un abito tradizionale su cui indossa un piumino, ha folti baffi arricciati all’insù che paiono quelli degli attori di Bollywood. Il suo lavoro, mi spiega, era dar da mangiare alle mucche: «Io, cow boy!», scherza. Nonostante la situazione drammatica riescono ad essere di buon umore. «Dobbiamo essere allegri, o almeno ci proviamo, piangere non serve a niente».

Non si conoscevano tra loro prima di arrivare a Ravenna, ma ora il gruppo è compatto anche se è composto da sunniti, sciiti e anche un cristiano: William. È il più giovane, ha lasciato il Pakistan quando aveva appena 17 anni, oggi ne ha 20 e ha un look molto occidentale. Indossa orecchini fosforescenti e ha i capelli corti con un ciuffo nero davanti al volto. È l’unico a parlare un ottimo inglese e fa da interprete per i compagni. «In Pakistan se sei cristiano e vivi in un piccolo villaggio nessuno ti vuole assumere per lavorare. Per questo sono voluto venire in Italia, qui so che sono tutti molto cristiani e pensavo che mi avrebbero accolto, invece molti non mi credono. Dicono che i pakistani sono musulmani, ma ci sono tre milioni di cattolici e anche sikh. Quando sono arrivato a Ravenna ho cercato una chiesa dove pregare, vicino alla stazione, il prete prima mi ha detto che non parlava inglese, poi in inglese mi ha detto che la chiesa era chiusa e dovevo uscire». Poi però William e gli altri hanno trovato anche preti più disponibili che hanno offerto soccorso come padre Pietro Gandolfi, responsabile della Stella Maris, e la Caritas che ha fornito i preziosi Rsai. «Gli italiani sono molto gentili con noi», dice William, «io però ho venti anni, e me ne sento addosso già quarantacinque dopo tutto quello che ho passato per arrivare qui. Da tre anni vivo in strada, in Grecia mi hanno anche messo in carcere solo perché non avevo il permesso di soggiorno. Credo che se vivrò un altro anno così impazzirò…». Sorride: «Ogni nazione dove sono andato mi ha scacciato prima che riuscissi a costruirmi una vita, dall’Iran alla Grecia, diventerò vecchio avendo vissuto in tutti gli Stati del mondo per qualche mese, ma senza aver avuto una vita».

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