Attacchi di panico, ansia, depressione. La psicoterapeuta: «Società fragile…»

Il punto di vista di chi incontra quotidianamente quei pazienti di cui il servizio pubblico non si occupa. «C’è un’insoddisfazione diffusa, una paura di non essere all’altezza: non ci sono strutture solide di riferimento come poteva essere il lavoro»

Paola

Paolo Bianchi

Paola Bianchi da vent’anni è psicoterapeuta, referente e fondatrice del Centro di Psicoterapia Liberamente, tra gli organizzatori della rassegna “Fronti della fragilità”, che ha portato nei giorni scorsi a Ravenna Umberto Galimberti (il prossimo incontro è in programma veneredì 16 febbraio alla Classense, dove si parlerà di depressione con Maria Luisa Verlato).

L’abbiamo incontrata per farci raccontare il punto di vista di chi lavora quotidianamente nel privato incontrando quei pazienti di cui il servizio pubblico non riesce a occuparsi o che, semplicemente, al pubblico scelgono di non rivolgersi.

In che momento della loro vita le persone in genere decidono di rivolgersi a uno psicoterapeuta?
«Le situazioni possono essere molto diverse, ma in generale si tratta di persone che stanno attraversando un momento di difficoltà perché è accaduto qualcosa di traumatico nella loro vita, o perché hanno sintomi fisici la cui origine, dopo tanti accertamenti medici, è stata diagnosticata come psicosomatica».
Quali sono i traumi più frequenti dopo i quali le persone vengono da lei?
«Ci possono essere lutti e separazioni, incidenti d’auto, ma a volte anche cose che apparentemente possono essere viste come positive, per esempio traslocare in una nuova casa più grande o l’arrivo di un bimbo, possono scatenare un disagio».
Quali sono i sintomi più frequenti che incontra e quelli che ha visto diffondersi maggiormente negli ultimi anni? E soprattutto, quali sono le diagnosi?
«Tra i sintomi c’è sicuramente l’attacco di panico, per la mia esperienza sempre più frequente soprattutto nella fascia 25-35 anni. E in generale ho visto crescere i sintomi ansioso-depressivi. C’è questa paura diffusa di non essere all’altezza, di non essere abbastanza “performante”, un senso di insoddisfazione diffusa, il non essere mai a posto, una difficoltà a capire che cosa vogliamo veramente noi e cosa invece si aspettano gli altri da noi. Penso per esempio a tante donne tra i 38 e i 43 anni che si interrogano sulla maternità».
Ma perché secondo tanti psicoterapeuti queste sofferenze sono effettivamente in aumento?
«Credo perché noi tutti ormai viviamo in una società che è fragile, senza strutture solide di riferimento come poteva essere il lavoro. Ma soprattutto abbiamo perso la capacità di crescere interiormente, dove ciò che dobbiamo essere prevarica il nostro essere e dove spesso l’essere viene confuso con altro. Per chiarire uso una semplificazione: un attacco di panico è il sintomo psichico di un mancato dialogo interno o di un conflitto fra parti di noi che non si conoscono affatto e questo spesso è il risultato di un processo di crescita che si è inceppato da qualche parte».
C’è un anche chi dice che ormai si va dallo psicologo per risolvere questioni che invece hanno a che fare con il piano politico e sociale, come dire che se siamo ansiosi è perché il lavoro è precario e sarebbe meglio magari iscriversi al sindacato e cercare di cambiare le cose invece di ripiegarsi su se stessi e, appunto, percepirsi come un problema…
«È sicuramente vero che oggi le persone hanno meno punti di riferimento e certezze sul futuro ma personalmente credo che la terapia possa servire proprio a ripartire da noi e a fare quell’esperienza fondante del conoscere se stessi e solo allora il pensiero potrà trasformarsi in azione e l’azione in cambiamento. È un processo che influenza anche il modo di stare nel mondo, e se avrò sperimentato in prima persona il cambiamento potrò agirlo e sentirmi più capace di comunicare, di evitare un conflitto, o costruire relazioni più solide. In buona sostanza starò meglio e non sarò io il problema…»
A proposito di formazione: come si può oggi scegliere un terapeuta?
«La prima distinzione che è sempre bene fare è quella tra psicologo e psicoterapeuta. Il primo non può andare oltre un paio di colloqui di orientamento, il secondo invece può effettivamente seguire un paziente in un percorso terapeutico. Per quanto riguarda la formazione mi sento di dire che sia fondamentale che lo psicoterapeuta abbia fatto un percorso di terapia personale che però non è previsto da tutte le scuole».
Capita mai che uno psicoterapeuta rifiuti di seguire un paziente?
«Certo, ci sono situazioni o problematiche che per molte ragioni si può ritenere di non poter affrontare al meglio ed è un dovere professionale in questi casi indirizzare altrove il paziente».
Uno dei grandi temi resta però quello dell’accessibilità economica. Se il servizio pubblico latita e le sedute costano tra i 60 e i 100 euro, molte persone rischiano di restare escluse…
«È sicuramente un enorme problema, per questo nel nostro centro stiamo realizzando un progetto di “psicologia sostenibile”e incentiviamo i gruppi di sostegno per andare incontro alle esigenze di chi ci chiama e poi rinuncia alla terapia almeno inizialmente per i costi. L’idea di base è quella di offrire incontri di consultazione a un prezzo simbolico. Inoltre, si stanno sviluppando anche nuovi approcci, quello per esempio del metodo basato sulla terapia a seduta singola. Si individua un problema circoscritto e si cerca di lavorare esclusivamente su quello. Ho seguito ultimamente una formazione per poter praticare e integrare questo tipo di lavoro ove possibile proprio per rispondere alle nuove esigenze delle persone. Non possiamo dire sempre e solo no».
In quest’ottica è nata anche la possibilità di fare sedute via Skype?
«Sì, anche se personalmente non la pratico. Ci sono situazioni in cui può essere d’aiuto, e l’Ordine Nazionale degli Psicologi ha codificato linee guida ben precise per le prestazioni via internet e a distanza».
Gli psicoterapeuti non possono prescrivere farmaci, ma li ritengono utili?
«Personalmente credo che ci siano situazioni in cui il farmaco sia necessario, anche per poter intraprendere la terapia. Accade che in casi gravi di depressione il paziente non riesca neanche a varcare la soglia di casa, tantomeno per venire in studio. Oppure penso come ogni anno ci siano innumerevoli accessi al Pronto Soccorso per attacchi di panico che hanno sintomi fisici invalidanti, e che a volte è opportuno formulare una diagnosi accurata per valutare la necessità di ricorrere al farmaco e alla terapia più appropriata».
Eppure anche i medici di base possono prescrivere psicofarmaci…
«Sì, il paziente spesso richiede una cura che allevi il sintomo o lo metta a tacere».
Un’ultima curiosità: in un mondo così competitivo e “performante”, la sensazione è che a volte a farcela siano persone non necessariamente equilibrate… Le capita mai per esempio di ascoltare un uomo politico e pensare che forse gli farebbe bene un po’ di terapia?
«Sì, in certi ambienti molto competitivi oggi una persona con marcati tratti narcisistici può avere più possibilità di emergere, per esempio. E in generale, rispetto alla politica, ciò che vedo è uno scollamento sempre maggiore tra la rappresentazione di sé e la realtà di cui il politico dovrebbe occuparsi, una scissione direi tra i proclami e slogan mediatici e la verità che le persone toccano con mano ogni giorno con la fatica di vivere».

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