Biloslavo, da 36 anni reporter di guerra: «L’orrore del male ancora mi colpisce»

L’inviato de Il Giornale era a Raqqa con l’esercito curdo quando la città è stata strappata al Califfato. Il 27 maggio sarà a Lugo per una serata pubblica in cui racconterà la Siria e il conflitto che la sta distruggendo: «È in corso un conflitto mondiale in miniatura»

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Fausto Biloslavo

Nella Beirut del 1982, inviato di guerra per la prima volta all’età di 21 anni, ha aperto la portiera di una Mercedes a caso e si è trovato di fronte la canna del kalashnikov di un pretoriano di Arafat che aveva studiato in Italia e gli ha consentito di scattare una foto del leader palestinese che nessun altro ha potuto scattare. Lo chiama fattore C ma forse era un segno che un po’ di stoffa da reporter c’era già all’esordio. Nei 36 anni passati da quella Beirut, il triestino Fausto Biloslavo ha raccontato i conflitti del mondo dalla prima linea, con il giubbotto antiproiettili per portare a casa la pelle insieme al reportage. Domenica 27 maggio alle 20.45 nel salone del Carmine di Lugo, in corso Garibaldi 16, ci sarà una serata dal titolo “Guerra: la speranza dentro l’abisso”, con filmati e testimonianze del cronista di guerra inviato de “Il Giornale”. La serata, a ingresso libero e aperta a tutti, è organizzata dal circolo “John Henry Newman” con il patrocinio del Comune di Lugo.

La serata di Lugo sarà dedicata soprattutto alla situazione in Siria, vissuta da reporter. L’ultimo reportage a quando risale?
«Ero a Raqqa durante l’assedio e la caduta del controllo delle bandiere nere con il crollo del mito del Califfato che nel 2014 aveva un territorio grande quanto l’Italia. Sono stato un mese con i curdi, avanzando palmo a palmo: con l’appoggio aereo degli americani il loro contributo sul campo è stato fondamentale ma l’Occidente li ha usati come carne da cannone e si è già dimenticato di loro lasciandoli sotto la minaccia dell’esercito turco».

La tragica contabilità delle vittime cosa dice finora?
«Le stime da prendere con le molle parlano di 250mila morti. Poi milioni di profughi e feriti. C’è un Paese che non esiste più perché è stato completamente distrutto dai bombardamenti. Penso a una città come Aleppo che era un centro importantissimo. Sarà difficile la rinascita».

Il Califfato è caduto ma la Siria resta ancora la situazione più delicato sullo scenario mondiale?
«Sicuramente sì. In Siria non c’è più solo una guerra civile ma una guerra mondiale in miniatura perché sono coinvolte direttamente le superpotenze mondiali e le potenze regionali: America, Russia, Iran, Israele e Turchia. E la sconfitta del Califfato ha fatto aumentare la sua voglia di ritorsione e vendetta. Per l’Europa la minaccia è concreta: molti foreign fighter torneranno a casa. Con quali intenzioni? Sapremo intercettarli?».

Il caos siriano troverà una soluzione?
«L’unica soluzione credo sia che americani e russi si siedano attorno a un tavolo e decidano il futuro della Siria. Ma temo non avverrà. La situazione è incancrenita e servirebbero dei leader politici che abbiano davvero voglia di farlo».

Trump e Putin?
«Soprattutto dal primo mi aspettavo qualcosa di diverso in Medioriente. Sembra più interessato a Twitter che ai veri problemi».

La Siria è uno degli ultimi reportage di una carriera cominciata 36 anni fa in Libano. Cosa sapeva di come si fa il mestiere del reporter di guerra?
«Niente perché è qualcosa che si impara sul campo e non a tavolino. Avevo 21 anni e andai a seguire l’invasione israeliana del Libano. Entra fino a Beirut con le truppe di Israele e poi riuscii a passare dall’altra parte delle linee, quello che io considero il reportage perfetto, purtroppo ormai impossibile oggi».

Perché quel reportage perfetto oggi è difficile?
«Fino all’inizio degli anni Novanta le parti in conflitto erano interessate a dare la propria versione ai giornalisti. Poi dopo l’11 settembre le cose sono cambiate molto. Un po’ perché i giornalisti si sono messi l’elmetto e dall’altra parte non vengono più visti come testimoni ma come infedeli e ti calcolano in base al passaporto che hai in tasca e puoi essere visto come spia o come carne da sequestro. Ma anche perché abbiamo visto che nessuno ha bisogno di un giornalista per dare il proprio racconto, la propaganda si può fare benissimo con i mezzi tecnologici a disposizione di tutti».

Nel 1982 non sapeva niente ma scattò una foto che è passata alla storia…
«L’unica foto di Arafat che partiva da Beirut, pubblicata anche sul Time. Fu un colpo di fortuna. Diciamo fattore C. C’era una colonna di auto e trecento giornalisti che cercavano di capire su quale fosse Arafat. Io per caso aprii la portiere di una e mi trovai di fronte la canna di un Kalashnikov impugnato da un omone con i baffi. Con un inglese maccheronico da studente dissi che ero un giornalista italiano democratico. E l’omone con i baffi mi rispose in italiano dicendo che aveva studiato a Bologna: era uno dei capi della guardia privata di Arafat, mi fece salire e arrivai con loro al porto».

Dopo tanti anni come vive ogni nuova missione?
«Ne ho viste tante però per fortuna l’orrore della guerra mi colpisce ancora: serve una corazza per affrontare questi reportage ma mantenere l’umanità e stupirsi del male è fondamentale per trasmetterlo ai lettori. Non puoi restare insensibile quando dalle macerie spuntano mani e gambe dei combattenti e dei civili. Se sei impassibile vuol dire che è ora di appendere al chiodo il giubbotto antiproiettili».

Quante volte ha rischiato di lasciarci la pelle?
«Tante. Sono stato ferito gravemente a Kabul, sono stato prigioniero sette mesi nelle carceri afghane durante l’invasione sovietica, mi hanno sbattuto a un muro e volevano fucilarmi, a Sirte i pezzi del corpo di un kamikaze mi sono caduti addosso…».

Il reporter di guerra riesce a portare avanti una vita normale con affetti familiari?
«Assolutamente sì altrimenti vai fuori di testa. Ho il mio porto sicuro che è Trieste e la mia famiglia. Quando torno mi piace farlo sempre con il treno che costeggia il golfo per rendermi conto di quanto siamo fortunati a vivere in pace».

Una carriera così lunga le permette di aver attraversato molti dei cambiamenti tecnologici che hanno modificato la professione del giornalista. Quello in cui siamo immersi ora, delle reti e dei social media, è il più sconvolgente?
«Ho cominciato con un Olivetti 32, il fax era miraggio e c’era il telex. Nel 2003 in Iraq avevo un palmare satellitare in mezzo al deserto. Ho iniziato come fotografo con i rullini senza sapere cosa avevo scattato e oggi il 30 percento delle mie foto le faccio con un Iphone perché è più comodo. Non si deve avere paura dei cambiamenti ma non bisogna pensare che grazie a internet si possa fare il lavoro senza andare sul posto».

Ha fatto riferimento al fenomeno foreign fighter. Di Ravenna si è detto più volte sulla stampa anche nazionale di quanti ne siano transitati. Come legge il dato?
«So che Ravenna è una delle città con una buona incidenza di amanti della guerra santa. Perché è una città non tanto grande e queste persone si sono spostate dalla grande città verso la provincia. Il punto di domanda è: quelli che si sono estremizzati e magari sono partiti, ora torneranno? E saremo in grado di capire eventuali minacce?».

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