«La lingua italiana è vispa e sta bene, ma gli italiani dovrebbero studiarla»

La sociolinguista Vera Gheno tra un “piuttosto che” sbagliato e inglesismi che ingannano: «Se si smette di fruire di stimoli culturali si può tornare ad analfabetismi di varia natura». La traduttrice a Ravenna il 7 febbraio con il filosofo Bruno Mastroianni per presentare il loro libro

65972309 2255466501167923 8116208873301344256 OUno potrebbe immaginarsi che ragionare sulla lingua italiana e su come si sbaglia nel parlare e nello scrivere sia una noia totale. E invece se a ragionare è Vera Gheno non ci si annoia. Perché per spiegarti le cose la sociolinguista e traduttrice cita Gramsci e Manzoni e usa l’avverbio pedissequamente, ma ti tira fuori anche il McDonald’s, il Marchese del Grillo, la musica trap, la scuola guida, le parolacce della Littizzetto in tv. Gheno sarà a Ravenna il 7 febbraio (alle 18 a Casa Melandri per presentare il libro “Tienilo acceso” scritto con il filosofo Bruno Mastroianni) e noi l’abbiamo intervistata al telefono alla vigilia.

Partiamo dai social network. Stanno peggiorando la nostra capacità di scrivere o stanno solo portando a galla qualcosa che c’era ma non aveva un terreno dove manifestarsi?
«Un po’ una e un po’ l’altra. I social sono un contesto soprattutto informale, nel quale emergono le caratteristiche proprie dell’informalità, che fino a tempi recenti erano difficili da trovare, soprattutto in Italia, nello scritto. Quindi è vero che ci fanno vedere cose che non eravamo abituati a vedere per iscritto, ma in fondo sono sempre esistite. Però se uno non ha una dieta mediatica varia, se consuma solo social, poi la lingua ne risente. È come se i social fossero il McDonald’s: ogni tanto va bene, tutti i giorni potrebbe essere un problema».

Restiamo nella metafora: mangiare piatti stellati tutti i giorni andrebbe bene?
«No, ogni contesto ha il suo stile: in strada ci sta bene lo street food. Il problema di molti è che hanno un unico stile a disposizione».

Con i nuovi media non sta succedendo quello che successe con la tv che all’inizio ebbe un ruolo educativo. Come mai?
«La tv ha avuto un ruolo di guida linguistica culturale fino a quando è stata fatta da pochi, buoni e con una visione chiara. Il bello e il brutto dell’online è che ha dato voce a chiunque, come diceva Eco alla sua maniera. Ma molti hanno una visione egoistica e non pensano alle conseguenze dei propri flussi comunicativi sugli altri; invece, a certi livelli, sarebbe meglio pensarci».

Si può fare una previsione di come sarà l’italiano del futuro?
«È un esercizio che non amo fare. L’italiano va dove lo facciamo andare noi. Quindi dipende dalla nostra salute culturale di parlanti. La domanda dovrebbe essere dove va la salute culturale degli italiani, ma non è facile fare previsioni».

56608804 10218602131074277 2095870162715541504 OI cambiamenti della lingua spesso nascono da errori che poi si consolidano. Se è così ha senso correggere gli errori sul nascere?
«Luca Serianni, il nostro maggior linguista in carica, paragona la norma linguistica al comune senso del pudore, che è sempre legato allo Zeitgeist, allo spirito dei tempi. Funziona così: c’è la regola e c’è la percezione di quella regola da parte della comunità dei parlanti. Ci sono errori che diventano norma e altri che ti squalificano come parlante. Dagli anni Novanta esiste quello che è definito italiano neo-standard, una sorta di codificazione di un italiano non del tutto quello di scuola ma nemmeno del tutto sbagliato. È l’italiano in cui troviamo “a me mi”, “se lo sapevo non venivo” che peraltro già usava Manzoni, il presente pro futuro come “domani vado”, l’appiattimento su passato prossimo o remoto a seconda delle zone, gli al posto di loro ma non al posto di le, che è ancora sentito come errore. Se scrivi “po’” con l’accento gli altri ti considerano un ignorante. Se usi “piuttosto che” in modo errato si nota meno. L’errore può diventare accettato quando è tale per una massa critica sufficiente».

Perché il “piuttosto che” sbagliato sta passando?
«Per me dietro c’è del razzismo linguistico. “Piuttosto che” usato come disgiunzione non è nemmeno di facile comprensione, ma deriva dal milanese, per molti varietà di prestigio dell’italiano, dato che è la lingua del marketing e dell’economia. E allora è accettato più che “esci il cane” o “scendi la borsa dal treno” che sono immediatamente comprensibili, ma di origine meridionale».

I cambiamenti linguistici valgono anche per le parolacce?
«La parolaccia è quella che è percepita come tale. In tv oggi sentiamo la Littizzetto dire “cazzo”, ma vent’anni fa sarebbe stato impensabile. “Merda” per Dante non era volgare e per noi invece lo è».

In più circostanze ha detto di non sposare le posizioni dell’integralismo grammar-nazi. Non dovrebbero essere gli addetti ai lavori a difendere la lingua?
«Non ho mai amato il concetto di difesa della lingua. La lingua va amata e usata e anche piegata ai nostri scopi. Si difende un baluardo, una statua, un moribondo e nessuna di queste è la lingua. La lingua italiana è vispa e sta bene. Il problema siamo noi: è difficile ammettere che siamo ignoranti e dobbiamo studiare di più. Chi studia la lingua ne capisce l’elasticità, ne coglie le parti grigie. Faccio un paragone con la guida: chi ha dimestichezza con il volante non guida pedissequamente come gli hanno insegnato a scuola, pur senza andare nell’illegale. Ed è fondamentale per muoversi in certe città».

Ma quando sente un errore nel parlare avverte il bisogno di correggere subito o lascia andare?
«Ho molta comprensione per chi ho attorno a me. Mi chiedo: ce la sta mettendo tutta? Se è una persona che non ha studiato e magari non ha bisogno di usare la lingua in maniera raffinata per la quotidianità va capito. Ho meno comprensione per i professionisti che tirano via: il cartellone pubblicitario con l’errore o l’anchorman che sbaglia il nome».

43283049 10156735348369851 3181954717701898240 OCome si migliora la propria competenza linguistica?
«Molto dipende da quello che ti passa la scuola e da anni dico che bisogna insistere sulla competenza di registro perché non c’è un registro giusto e il resto sbagliato. Poi c’è l’iniziativa individuale, che non è solo leggere libri ma consumare un po’ di tutto. Io sono stata una lettrice forte da teenager e poi sono curiosa: se incontro una parola che non conosco vado a cercarla, passo dai fumetti alla trap ai trattati scientifici».

Che impatto potrà avere sulla lingua il calo di lettori dei giornali?
«Rispondo con una domanda: perché molti giornalisti hanno abdicato al loro ruolo di intermediari e non curano più né la qualità del contenuto né la forma linguistica?».

L’analfabeta funzionale è uno spauracchio mitologico o è realtà?
«Siamo tutti a tiro per esserlo. Non basta aver finito le scuole dell’obbligo. Se si smette di fruire di contenuti culturalmente stimolanti si può tornare ad analfabetismi di varia natura. Da chi non capisce le istruzioni a chi non sa usare determinati mezzi di comunicazione. Il problema più grande in questo momento non sono i giovani ma gli adulti. Il muscolo linguistico va esercitato costantemente per tenerlo allenato».

Cambia quasi tutto nella lingua ma cambia poco il linguaggio istituzionale. Perché?
«Perché in quei contesti il fine primario non è sempre passare la comunicazione, ma è altro: darsi un tono, mantenere una distanza. Della serie “io sono io e voi non siete un cazzo” per dirla con il Marchese del Grillo. Succede anche nei linguaggi settoriali di medici, avvocati, giuristi: chi ha studiato tanto per arrivare in una posizione poi usa la lingua come strumento di distanziamento. Ma è un disagio: se la cultura è nulla senza relazione, parafrasando Gramsci, allora il medico che parla di “minzione notturna” anziché chiedere al paziente quante volte fa pipì di notte non sta facendo bene il suo lavoro».

Poi ci sono le parole straniere…
«Nella scelta straniera o del termine più difficile ci vedo talvolta il dolo di non volersi far capire apposta per poter fare i propri comodi senza essere disturbati. Faccio l’esempio del bail-in e bail-out nel salvataggio delle banche…».

Una sociolinguista ha una parola preferita?
«Quando ero più giovane dicevo “resilienza”, perché mi piaceva il concetto di materiale che si deforma ma torna al suo stato iniziale, quasi il “frangar non flectar” latino. Poi resilienza è entrata tra le parole lise dall’uso, quelle che dopo un po’ danno noia e diventano fastidiose come “attimino” e “apericena”, e così mi hanno rubato la mia parola preferita. Da allora, non ne scelgo nessuna specifica: dico che mi piacciono tutte, perché tutte possono servire».

MAR MOSTRA SALGADO BILLB 15 – 21 04 24
TOP RENT BILLBOARD FOTOVOLTAICO 04 – 18 04 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24