“So cosa hai fatto”: il cinema horror spiegato dal critico Pier Maria Bocchi

Una due giorni al cinema Mariani con lo studioso: «È un genere che intercetta da sempre il proprio tempo e resta contemporaneo. La svolta con i morti viventi di Romero»

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Gli appassionati di cinema che conoscono FilmTv e Cineforum, davanti alla sigla PMB, sanno di trovarsi di fronte a letture pungenti, sorprendenti, mai banali. Dietro quelle tre lettere c’è Pier Maria Bocchi, critico e studioso che ha dedicato saggi a Woody Allen e Michael Mann. Per anni Bocchi è stato collaboratore del dizionario dei film Il Mereghetti e oggi ha scritto – forse – la sua opera più completa. Certamente quella più personale. So cosa hai fatto. Scenari e pratiche dell’horror moderno (Ed. Lindau) è una storia del cinema horror degli ultimi 50 anni.

I titoli che danno il nome a ciascun capitolo sono film “minori” o poco conosciuti (chi ha visto Effects del 1979?) e il testo unisce l’analisi del genere a una dimensione privata, autobiografica, alternando l’approfondimento critico e racconti in prima persona. Un libro di cinema che aspira ad essere anche un romanzo, osa, rischia e alla fine vince la scommessa. Ed è diventato in pochi mesi un piccolo caso editoriale: già due ristampe esaurite, liste di appassionati su letterbox dedicate ai film citati nell’indice (oltre 600, aperti e chiusi da Lucio Fulci).

Ne parliamo con il suo autore, che sabato 23 novembre alle 17.30 sarà ospite al cinema Mariani di Ravenna per parlare del libro e di horror, nonché per introdurre la visione di un classico del genere. Si tratta di Nightmare. Dal profondo della notte di Wes Craven, riproposto in 4K per il 40esimo anniversario. Inoltre domenica mattina Bucchi presenterà The Substance, l’horror del momento con Demi Moore (formula colazione + cinema alle ore 10). Per maggiori informazioni: www.cinemaincentro.com

 Pier Maria Bocchi

Pier Maria Bocchi

C’è un motivo se l’horror, oggi, è più vivo che mai?
«È un genere che intercetta da sempre il proprio tempo, lo capisce, lo assorbe e lo sfrutta per costruirsi un abito su misura. Esistono tanti horror quante sono le epoche, le culture, le società. Si trasforma, muore e rinasce dalle sue ceneri, è in grado di captare il senso del proprio tempo. Per questo l’horror è sempre contemporaneo».

Qual è un momento cruciale per il genere?
«Il 1968, quando esce la Notte dei morti viventi di Romero. Tutti, critici e spettatori, capiscono che l’horror è una cosa seria perché può parlare della realtà. Prima c’erano dame, castelli, cantine, passaggi segreti, oppure era psicologico (pensiamo a Psyco di Hitchcock). Da questo momento l’horror diventa politico: il male è endemico, nasce, si sviluppa e si diffonde nell’humus del paese (gli Stati Uniti) e non se ne va. Appartiene alla campagna, alla provincia sonnacchiosa: in Halloween il male, Michael Myers, si diffonde lontano dalla città. Con gli anni ’80 cambia tutto, perché cambia l’agenda politica del presidente Reagan. E alcuni film hanno l’intuizione, che oggi appare scontata ma allora non lo era affatto, di portare quel male da una dimensione lontana fin dentro le arterie cittadine. Improvvisamente il male si nasconde nelle metropoli, tra i grattacieli e la folla, dove fino a poco tempo prima ci si sentiva al sicuro. Non c’è più salvezza. Nel libro dedico un capitolo a Gli occhi dello sconosciuto, ma un altro titolo emblematico di questo passaggio è Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis».

Che cosa c’è di mostruoso nell’horror di oggi?
«La città è diventata l’uomo stesso, senza strade, senza quartieri. Per questo possiamo parlare di horror antropologico. Lo spiega bene in pochi minuti il regista canadese Santiago Menghini nel cortometraggio del 2020 Regret (che vedremo al Mariani), muovendosi tra grattacieli minacciosi, stanze di hotel e demoni interiori. Riuscendo nel non banale compito di filmare il buio. Regret sa cogliere l’essenza del male che si annida nell’anonimato metropolitano ma recupera, allo stesso tempo, uno dei macro temi a cui l’horror si ispira: la frattura interiore dell’io. Non esiste il mostro altro da sé, ma il mostro nasce dentro di noi. Anche la pandemia ha influenzato il genere, ne parlo nel capitolo dedicato a Sick (2022)».

So Cosa Hai FattoSi può dire che l’horror abbia plasmato l’intera storia del cinema perché, probabilmente, non esistono altre figure iconiche come l’uomo invisibile, il vampiro e la creatura di Frankenstein.
«Ho scelto come copertina del libro un frame del film L’uomo invisibile (2020). Il fantasma è la figura più importante oggi, quella che più si avvicina alle immagini da cui siamo circondati e bombardati. L’idea di qualcosa di non visto e che ci spaventa è un nodo contemporaneo fondamentale».

Quali sono gli horror imprescindibili, uno per decennio, che ti senti di consigliare?
«Nightmare. Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven. È uno dei primi horror che mette in scena lo scollamento totale tra le generazioni: i giovani non riescono a farsi capire dagli adulti e gli adulti non capiscono gli adolescenti. Oltre all’idea del mostro che varca la soglia tra realtà e fantasia. Cure (1997) di Kiyoshi Kurosawa, il capolavoro del J Horror, dove il male non ha una spiegazione, è indefinibile, irrintracciabile, non può essere fermato perché può propagarsi ovunque e da nessuna parte: lo stesso ciclo alla base di Final Destination e del sottovalutato Darkman di Sam Raimi. It Follows (2014) di David Robert Mitchell, perché è l’altra faccia della stessa medaglia di Nightmare, mette in scena le medesime dinamiche con la generazione Z e dove l’orrore è ancora più radicale perché è visto solo dai protagonisti. Infine L’uomo invisibile (2020) di Leigh Whannell e Nope (2022) di Jordan Peele, che mettono in scena l’importanza e lo spessore delle immagini oggi, quelle di cui non riusciamo a fare a meno».

Che cosa significa rivedere Nightmare. Dal profondo della notte quarant’anni dopo?
«Rendersi conto di come si riusciva a ideare l’orrore in quegli anni, l’inventiva, l’effetto speciale e il make up di puro artigianato senza CGI. E capire come sono nate le vere icone del nostro immaginario che ci hanno accompagnato e sopravvivono al tempo: Freddy Krueger, Michael Myers, Jason Voorhees».

Art the Clown può diventare una nuova icona del cinema horror?
«No. Le tre maschere di Nightmare, Halloween e Venerdì 13 volevano e riuscivano a dire qualcosa sul loro tempo. Non mi pare ci riesca Art the Clown».

Come ti spieghi allora il successo al botteghino di film come Terrifier 3?
«È un periodo molto felice per il genere, in cima agli incassi ci sono tre horror, The Substance, Terrifier 3, Longlegs. Non era mai successo in Italia. Sono film che trovano un bacino di utenza notevole e sanno dialogare con lo spettatore giovane – che resta il target di riferimento – grazie anche a un ottimo lavoro di marketing e al passaparola sui social».

Due titoli imperdibili, tra quelli di quest’anno?
«Oddity, ancora inedito in Italia, è una sorpresa continua, parte come un horror, diventa noir e torna horror. E naturalmente The Substance di Coralie Fargeat che incarna l’ideologia più adeguata alla nostra contemporaneità: io esisto in quanto immagine. Ci vuole coraggio a programmarlo la domenica mattina, dopo colazione».

*direttore artistico Cinema Mariani

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