Arianna Porcelli Safonov e quella «condanna per la comicità»

L’attrice romana ha cambiato vita dopo una laurea in Moda e Costume e una carriera da project manager. «La scrittura era il mio hobby da sempre»

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Una carriera nata online, tra le pagine del blog di racconti umoristici Madame Pipì e i 90mila follower su Instagram, ma proiettata verso il teatro, lo scambio con il pubblico e il piglio diretto della stand-up comedy. Arianna Porcelli Safonov, nata a Roma da papà russo e mamma ligure, è attesa sul palco del Masini di Faenza  sabato 25 gennaio (ore 21) con il suo Alimentire, monologo con “colonna sonora” «dedicato al grosso guaio in cui si è ficcata l’alimentazione: quello di diventare una tendenza a cui si aderisce, con tutti i peggiori difetti che un cittadino possa mostrare in pubblico», basato sull’opera del saggista statunitense Michael Pollan. In questa intervista, l’autrice ci racconta il suo spettacolo e il suo immaginario giocato sui contrasti e le contraddizioni della società attuale, indagata da chi in quella società ci si è immerso fino in fondo, grazie a una laurea in Storia della moda e del costume e a una carriera da project manager nell’organizzazione di eventi a livello internazionale, prima di decidere di allontanarsene il più possibile, dedicandosi a tempo pieno alla scrittura in un paesino di una decina di abitanti sull’Appennino.

Alimentire si prende gioco dell’ossessione per la cucina gourmet, del cibo “rifatto” nell’estetica e nella composizione: quali riflessioni ci sono dietro questa idea?

«Lo spettacolo nasce con l’intento di unire satira e divulgazione. Anni fa rimasi affascinata dal capolavoro di Pollan il dilemma dell’onnivoro, un libro che racconta in maniera sintetica il complesso mondo della filiera produttiva alimentare. Ho deciso di riprenderlo in mano, aggiungendo qualche aneddoto personale e una colonna sonora elettronica, adatta anche a un pubblico molto giovane. Io vengo da una famiglia dove nessuno ha mai cucinato, ho scoperto negli anni cosa significa davvero mangiare, e il pretesto narrativo parte dalla storia del mio filippino, che lavorava a Roma negli anni ‘90. Un vero malvivente, apparentemente scollegato dalla storia, ma è lui a cucinare in casa e alla fine… si mangia i miei gatti. Non rivelerò altro, vorrei solo far passare nello spettatore l’idea che è possibile essere un consumatore istruito e che il concetto di “bio” tra gli scaffali del supermercato è un ossimoro. Il brutto regalo che farò alla fine dello spettacolo è la consapevolezza che le “fattorie felici” non esistono, ma a parte questo si riderà molto. L’idea è quella di proporre un discernimento istruito su come vengono fatti i cibi e su come li si sceglie, al di là del marketing».

Da dove viene la vocazione per la comicità?

«Più che una vocazione direi una condanna. È come se avessi investito trent’anni della mia vita nel disperato tentativo di fare altri lavori al di fuori della comica, cercando poi la prima occasione buona per licenziarmi. La scrittura è il mio hobby da sempre e mi sono servita della rete come trampolino di lancio di facile accesso per vendere i miei libri e arrivare a portare i miei testi sul palco».

Com’è stato passare dalle pagine di un blog all’esperienza del palco?

«Credo che il mio tipo di scrittura non sia fatto per restare solo su carta. A differenza di quanto accade per il dramma, lo scritto comico cambia profondamente se letto o ascoltato. È come se fosse un’evoluzione naturale del testo, che “vuole” avvicinarsi al teatro e al tempo stesso “chiama” lo spettatore. Alcuni dei miei libri, come Fottuta Campagna, vengono letti anche durante i miei trekking “transumantia”: passeggiate in Appenino tra gruppi ristretti, dove si cammina e si parla del famoso “cambio di vita” sulla bocca di tutti, tra caprette e agriturismi biologici, che però non è mai facile e così luminoso come vogliono farci credere. E credetemi, lo dico per esperienza, abitando in un paesino di pochi abitanti: per parlare male della gente devo per prima cosa starne distante!».

La sua opera è generalmente votata a dissacrare i trend, eppure è laureata in Moda e costume: c’è una sorta di fascinazione che si è trasformata in odio o stava solo cercando di conoscere meglio ciò che non le piace?

«Si parla sempre di specchi della società: il costume che ho studiato è degno di essere appreso, mentre quello che ricerco per i miei spettacoli è il disperato tentativo quotidiano del cittadino medio di sembrare “fighissimo”, pur non essendolo per niente. Nulla di nuovo, è una dinamica che esiste da sempre, ma credo che oggi sia molto più diffusa. E le persone si offendono di più, tanto da ostacolare il lavoro del comico».

Della serie “non si può più dire niente?
«Si dice tutto ma se ne devono sopportare le conseguenze. Credo che oggi questa “sovraconsiderazione dell’offesa” colpisca tutti i comici, anche i più spensierati. È importante far capire al pubblico che la comicità esiste per aiutare, non umiliare, l’uomo è già umiliato di suo. Facciamo ogni giorno cose efferatissime, scoppiano le guerre, ma non si può dire “ciccione”. La battuta è la cosa più innocua che esista e nel momento che si vanno a togliere margini di manovra alla satira il problema diventa sociale».

L’essere una comica donna in un settore che in Italia è perlopiù maschile è stata un’ulteriore difficoltà nel suo percorso?
«Non ho avuto particolari problemi di inserimento, credo che l’umorismo sia svincolato dal genere. Però nei miei pezzi non parlo e non parlerò mai “del mondo delle donne”, su questo voglio essere più che inclusiva: parlo del mondo degli esseri umani e delle loro grottesche contraddizioni»

La stand-up comedy può dare una voce a questo tipo di satira?
«Al massimo dà una voce in più alla volgarità, ma in Italia si fa fatica a parlare di stand-up comedy, perchè la nostra lingua non si presta come l’inglese a questo tipo di monologo. Alla base della stand-up c’è sempre un argomento di attualità, che viene dissacrato partendo da un ragionamento, arrivando spesso al turpiloquio per
scandalizzare. lo non sono particolarmente interessata a questa parte del processo, mi piace invece stupire con il ragionamento dietro la battuta, alzare il livello della comicità e dell’umorismo. Abbiamo a disposizione una lingua unica al mondo e dovremmo onorare il genere a modo nostro, valorizzando la comicità intellettuale prima di quella di pancia. Fino a Gaber ci salvavamo!».

Oltre a Gaber, da chi prende ispirazione nel suo lavoro?
«Louis C.K., Daniele Luttazzi, Antonio Rezza sono ottimi esempi. mi piacciono le persone che preferiscono l’arguzia allo scandalo»

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