Rime d’amore della Vita Nova nelle note di Nicola Piovani

A tu per tu con il premio Oscar

Nicola PiovaniCi sono melodie che rimangono impresse nella mente. Si insinuano in un angolo del subconscio e rimangono lì per riemergere improvvisamente, come portate dal vento. Le note di Nicola Piovani hanno questo dono. E ti entrano dentro insieme alle immagini di un film o di uno spettacolo e poi rimangono lì, e sono loro a decidere quando venirti a trovare, mentre cammini per strada la notte o quando sul treno il tuo sguardo si incanta guardando fuori dal finestrino. Anche per questo molti registi come Fellini, Monicelli, Tornatore e Benigni si sono innamorati del suo modo di comporre. Abbiamo parlato con Nicola Piovani di musica e di poesia. Ecco cosa ci ha raccontato il premio Oscar che il 6 giugno presenta al Pala De André la sua nuova composizione – commissionata dal Ravenna Festival – La Vita Nuova, ispirata al poema dantesco, e il 3 luglio, nell’arena Micoperi, sarà di nuovo protagonista del festival con un “concertato“ da singolare titolo La musica è pericolosa.

Nicola Piovani dirigePer il Ravenna Festival musicherà le parole di Dante: è una impresa assai difficile. Quale alchimia sonora sta pensando per fare in modo che il testo non sovrasti la musica, senza che la musica distolga l’attenzione da un testo così complesso?
«Il canto vero e proprio, affidato al soprano, sarà riservato soltanto ai versi di una Ballata e una Canzone di Dante, comprese nel prosimetro Vita Nova, quelle rime cioè probabilmente destinate al canto. Nessun sonetto sarà cantato, perché la musicalità di quelle composizioni è perfettamente intoccabile: i sonetti saranno recitati dall’attore su sfondi musicali fissi, accordi coronati, sospensioni musicali che accompagneranno la struttura metrica, incastonando i versi e scandendo la sequenza delle due quartine e le due terzine. E poi la voce di soprano fungerà talvolta da strumento, vocalizzando. La musica strumentale invece condurrà da una poesia all’altra, interpretando con libertà emotiva il senso di questi magnifici testi».
Ha lavorato con l’autore che forse è stato il più importate poeta del dopoguerra, le cui parole erano inscindibili dalla musica, Fabrizio De Andrè: cosa le rimane di quella esperienza? Come lavoravate assieme sull’unione di parole e musica?
«Lavoravamo soprattutto indagando, o, usando una parola facilmente fraintendibile, sperimentando: cioè tentando strade espressive diverse, fino a trovare la soluzione del problema poetico, narrativo e musicale. Le parole dovevano scorrere perfettamente sulla musica, le rime e il ritmo, dovevano fluire con grande semplicità, un lavoro faticoso di cesello. Partivamo da un testo con una musica abbozzata, magari banale, e poi io lavoravo alla stesura musicale, la quale richiedeva cambiamenti del testo, i quali a loro volta rimandavano a cambiamenti musicali… Un po’ a ping pong, direbbe Tonino Guerra».
La musica è pericolosa, si intitola invece il concerto che terrà al festival – riprendendo il titolo del suo libro. In che senso per lei la musica è pericolosa?
«È pericolosa come pericolose sono le bellezze della vita, quelle autentiche, che comportano sempre una quota di rischio, una scommessa esistenziale. Parlo delle bellezze di una scoperta scientifica sconvolgente: che ti mette di fronte al fatto che la terra gira, o all’esistenza dell’antimateria, o alla teoria delle stringhe, agli universi paralleli. O anche la bellezza dell’innamoramento adolescenziale – per me qualunque innamoramento è sempre adolescenziale – o lo stupore di fronte a una nuova musica seducente che può modificarti intimamente. Ricordo quando – facevo ancora le medie – scoprii la musica di Prokofiev, per la precisione il primo concerto per pianoforte e orchestra: ne rimasi sconvolto, cominciai a scoprire che al mondo non esiste solo ciò che vediamo e sapevamo, ma anche la dimensione del mistero, al quale mistero la musica ci permette di avvicinarci un po’. La musica, quella scintilla che scocca quando ci meravigliamo per le meraviglie di una nuova partitura, o di una nuova canzone, quell’estasi che nasce quando le prime volte cominciamo a capire l’opera 110 di Beethoven; la musica vera insomma, è in grado di farci intravedere qualcosa in più della divinità che accompagna la nostra vita, dalla culla alla tomba».
Che differenza c’è tra scrivere musica per il cinema e per il teatro?
«Nel cinema la musica deve lavorare spesso in punta di piedi, agire a livello incosciente sullo spettatore che si concentra sulle immagini. Quando durante una proiezione ci scopriamo a dire “senti che bella musica” vuol dire che qualcosa narrativamente non funziona, il sonoro diventa una distrazione. È invece solo alla fine di un film ben musicato che ci rendiamo conto del carico emotivo che la musica può  aver aggiunto. A teatro, al contrario, la musica deve avere, secondo me, il coraggio di presentarsi alla ribalta, di farsi sentire accanto agli attori, come un’attrice essa stessa. Naturalmente queste regole, che le ho espresso così di getto, sono piene di eccezioni».

Elio GermanoHa collaborato con i più importanti registi: Fellini, Monicelli, Bellocchio, Benigni, Moretti, Tornatore… Com’è lavorare con registi dalla personalità così forte, come intervengono sul risultato finale delle musiche?
«Più il regista ha una forte personalità e meglio si lavora. I veri autori di cinema sanno trarre il meglio dai collaboratori, a me è successo così. Ma non bisogna confondere la personalità artistica col narcisismo, il regista che sa darti indicazioni illuminanti, e quello che fa capricci, chi è autentico e chi vuole dire la sua senza avere gran che da dire».
Quale film l’ha segnata di più nel suo modo di comporre?
«In passato Salto nel vuoto di Marco Bellocchio. Recentemente Hungry heart di Saverio Costanzo: un lavoro che mi ha messo in contatto con un mio modo di esplorare musica e immagine che ignoravo. Ma anche L’olandese volante di John Stelling, un film di grandi mezzi, ma anche di grande libertà espressiva… Se non ricordo male, andò malissimo».
Per concludere vorrei farle una domanda che mi ha sempre incuriosito. Che musica ascolta Nicola Piovani?
«Mi viene da rispondere “tutti i generi di musica” come faccio spesso, ma è una risposta equivoca. Appena posso vado ai concerti sinfonici e da camera, o all’Opera. Qualche volta faccio viaggi apposta per andare al Comunale di Firenze, o al San Carlo. Quando sono all’estero approfitto per infilarmi nei teatri e negli auditorium. Per quel che riguarda la musica registrata, le posso fotografare cosa c’è in questo momento nella mia teca di Spotify: la Quarta Sinfonia di Bruckner, un’antologia di Rufus Wainwright, Snob di Paolo Conte, una Valchiria diretta da Zubin Metha, La Rondine di Puccini, un’antologia di canzoni napoletane cantata da Salvatore Papaccio, un concerto live di Diana Krall, Brad Mehldau, Rubinstein che suona miracolosamente il concerto di Saint-Saëns, I Miserabili di Schönberg (Claude-Michel, quello bravo), Los Nardos (una zarzuela), Daniele Silvestri, Nino Taranto (le macchiette…), Ligeti (il Gran Macabre), A love supreme di Coltrane, Le anime morte di Alfred Schittke, Gershwin che suona Gershwin… Ma forse, la risposta giusta era proprio quella di prima: un po’ di tutto!».

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