Come risuona oggi il barocco di Vivaldi

L’originale “recomposed“ di Max Richter

Max RichterApproda al Ravenna Festival – domenica 21 giugno, alle 21, al Pala De André – una delle più intriganti rivisitazioni di un capolavoro classico come le Quattro Stagioni di Vivaldi, fimata da Max Richter. Quel Vivaldi Recomposed, che mette mano alla geniale opera del “Prete Rosso“ per restituircela attraverso una sensibilità contemporanea che ne esalta cadenze e armonie, senza banalizzarla, com’è accaduto negli ultimi decenni, con jingle e siglette retoriche e ruffiane.

Arte del MondoLa serata del festival prevede un’esecuzione “classica“ affidata l’ensemble barocco L’arte del mondo, con Werner Ehrhardt maestro concertatore e Daniel Hope al violino solista e, a seguire, la composizione “neovivaldiana” di Richter. L’autore tanto per capire il suo approccio all’opera ha commentato che: «Non c’era bisogno di riscrivere Vivaldi ma si trattava di un’esigenza personale. Sono sempre stato innamorato delle Quattro stagioni, fin da piccolo. Poi crescendo ho incominciato a sentirle ovunque, nei centri commerciali e negli ascensori, nelle segreterie telefoniche e in pubblicità. A un certo punto ho smesso di amarle, le ho odiate, anzi… Riscriverle è stato come guidare attraverso un meraviglioso paesaggio conosciuto usando una strada alternativa per apprezzarlo di nuovo come la prima volta».
   
Il britannico Max Richter, in effetti, è un compositore colto, di impronta estetica minimalista, noto anche per le sue colonne sonore. Il compito e l’ambizione di riscrivere letteralmente, con tanto di orchestra, Le Quattro Stagioni di Vivaldi, risalendo alle note dell’epoca lo hanno portato a trasformare (e scartare) ben tre quarti degli spartiti originali. Il risultato è di gran livello ma non certo di rottura rispetto alla maestria della partitura originaria, se non per una moderna epicità che a qualcuno potrebbe ricordare le sonorità del gruppo post-rock scandinavo dei Sigur Ros.

Werner EhrhardtIl Vivaldi “rivisitato“ di Richter è solo l’ultimo capitolo della serie “Recomposed“ della storica etichetta tedesca Deutsche Grammophone. Non è la prima volta che si cerca di dare nuova vita a qualcosa di antico e non è la prima volta che l’elettronica abbraccia la musica classica. Certo, però, che questa è la volta più clamorosa. Perché sulla copertina degli album c’è il marchio giallo inconfondibile della casa di produzione della musica classica quasi per antonomasia, con alle spalle oltre un secolo di attività. Il marchio blasonato – nonostante il genere in cui è specializzato – continua ad avere le antenne sintonizzate anche sul mondo della musica contemporanea, al punto da dar vita a una collana quasi autonoma in cui (più o meno) giovani compositori già affermati nel campo dell’elettronica si cimentano a “coverizzare“ – direbbero gli appassionati di rock – alcuni storici brani del suo catalogo.

Una vera e propria rivisitazione, quando non una ricomposizione – la serie si chiama per l’appunto “Recomposed” – che ha l’obiettivo forse di ricordare a un target più giovane l’esistenza di capolavori spesso ingiustamente snobbanti anche dagli appassionati di musica più aperti, e viceversa quello di portare i cultori della classica a confrontarsi con qualcosa di davvero nuovo per loro. Ne è nata naturalmente una lunga discussione sul web e sulle riviste specializzate, alcune addrittura scandalizzate nell’ascoltare un Ravel, tanto per dire, in versione techno, ma l’obiettivo della storica etichetta tedesca si può dire invece raggiunto in pieno, almeno dal punto di vista dei risultati, altalenanti forse, ma sicuramente sempre interessanti.

Daniel HopeLa serie parte nel 2005 con il producer tedesco Matthias Arfmann alle prese con un mostro sacro come Herbert von Karajan e in particolare le sue incisioni con i Berliner Philharmoniker, con un risultato a tratti marcatamente house e non proprio riuscitissimo.
L’anno successivo le cose vanno un pochino meglio con il “recomposed” di Jimi Tenor, polistrumentista finlandese dallo stile solitamente al limite del kitsch che invece in questa occasione è quasi trattenuto, ambient e più astratto che mai, dando nuova vita a musiche di Steve Reich, Esa-Pekka Salonen, Pierre Boulez, Edgar Varese, Georgi Sviridov e Erik Satie.
Il capolavoro della serie, almeno per chi scrive, è invece quello del 2008, a opera del duo composto da Carl Craig – dj di Detroit tra i pilastri della musica techno nonché uno dei suoi precursori – e il polistrumentista tedesco Moritz Von Oswald. Qui il battito elettronico si fa molto più presente e ne esce un viaggio quasi psichedelico ispirato alle composizioni di Ravel e Mussorgsky in chiave minimal techno (Von Oswald fa pur sempre parte anche di uno dei migliori collettivi di sempre di questo genere, Basic Channel). Da applausi.
Due anni dopo sarà la volta di un altro big della scena elettronica mondiale come il britannico Matthew Herbert che ha ricomposto la X Sinfonia di Mahler senza, in realtà, metterci troppo del suo, per un giudizio finale positivo ma non straordinario come poteva essere. Poi l’apprezza impresa vivaldiana di Richter, che vanta oltre un milione di ascolti su Spotify. Chissà in futuro chi verrà “ricomposto“ a merito della storia della musica occidentale e delizia per le nuove generazioni. 

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