«In un mondo globalizzato non ha più senso distinguere casa “nostra” da casa “loro”»

La docente universitaria Eugenia Baroncelli sullo stato della cooperazione internazionale, il ruolo dell’Ong, della Banca mondiale (dove ha lavorato per sei anni) e i riflessi della crisi del 2008 sugli aiuti

Baroncelli

Eugenia Baroncelli

Eugenia Baroncelli, ravennate, è professoressa associata al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna e docente alla laurea magistrale in International Cooperation on Human Rights and Intercultural Heritage (I-Contact): tutti i corsi sono in lingua inglese, un’alta percentuale di iscritti non a caso viene dall’estero, un po’ da tutti i continenti, e c’è chi segue il corso a distanza, anche grazie agli strumenti digitali di didattica innovativa di Unibo, perché già impegnato in missioni sul territorio. Un corso di laurea magistrale che ha sede a Ravenna e rappresenta un unicum nel panorama nazionale, un’eccellenza per la città.

Baroncelli si occupa di cooperazione internazionale, ha lavorato alla Banca Mondiale e ha all’attivo una lunga serie di pubblicazioni, l’ultima delle quali, per Routledge, incentrata sulla collaborazione tra Ue e Banca Mondiale sul tema dello sviluppo.

Professoressa Baroncelli, che figure escono da questa laurea magistrale?
«L’obiettivo è quello di formare profili con una formazione interdisciplinare, che coniughi il tema della cooperazione allo sviluppo con quelli, fondamentali, della tutela dei diritti umani e dei diversi patrimoni culturali. L’attenzione ai diritti degli esclusi e alla promozione di un approccio co-evolutivo alla tutela dell’inter-culturalità sono fiori all’occhiello del corso ravennate. Tramite il corso, gli studenti acquisiscono conoscenze nel campo dello sviluppo, acquisendo al contempo un approccio pragmatico, volto a supportarne la formazione in ottica professionale. Le figure che il corso forma comprendono, ad esempio, quella di consulente per lo sviluppo, manager di progetti internazionali di sviluppo, ricercatore, advisor di istituzioni internazionali o nazionali, sia nell’ambito pubblico, a qualsiasi livello, sia nel privato, che è in crescita e comprende oltre alle Ong anche imprese private. Riuscire a coinvolgere finanziatori privati è, tra l’altro, una delle tendenze in atto, i cui effetti potranno essere apprezzati nel tempo».

Molte Ong sono state di recente sotto attacchi politici e non, con accuse provate di comportamenti colpevoli e accuse invece mai dimostrate per esempio di facilitare l’immigrazione clandestina. Sono lo strumento ideale per intervenire in teatri di guerra o comunque di crisi umanitaria?
«Pur non essendo un’esperta del no-profit, che è una galassia enorme e in continua evoluzione, penso di poter dire che le Ong hanno un ruolo fondamentale nei processi di mobilitazione dal basso sia negli stati donatori, sia all’interno dei paesi in via di sviluppo. Le energie e la capacità di auto-organizzazione della società civile sono una misura fondamentale della reattività dei cittadini. Tuttavia, il riferimento generico alla categoria Ong non ha molto senso, sarebbe come parlare in generale di stati o di multinazionali. Il tema meriterebbe risposte specifiche sulle diverse realtà. Detto questo, sono sempre più numerosi i casi di cooperazione tra Ong e organizzazioni internazionali nelle situazioni di crisi umanitaria e nei progetti di sviluppo. In molti casi le Ong sono il primo punto di accesso per gli ultimi e gli esclusi e sono un attore fondamentale nel raccoglierne i bisogni per trasmetterli agli attori pubblici. Le Ong rappresentano, in molti casi, uno dei lati positivi della crescente compenetrazione tra pubblico e privato nella cooperazione internazionale».

A cosa è dovuto questo aumento del settore privato?
«Occorre ovviamente distinguere, dato che del privato fanno parte anche imprese for profit. La crisi globale del 2008 e l’impatto sui bisogni interni agli Stati ha comportato uno spostamento di risorse dalla cooperazione alle necessità interne. All’elemento fattuale della crisi si sono poi unite dinamiche politiche che hanno fatto leva sugli effetti dello shock economico per attivare paure latenti, soprattutto nei confronti dei migranti, dentro gli elettorati. Si tratta di dinamiche complesse, che hanno portato in effetti a un ridimensionamento del pubblico e a un ampliamento dell’imprenditoria privata nei finanziamenti allo sviluppo».

Le Ong stanno quindi supplendo alle mancanze delle istituzioni? Penso in particolare al Mediterraneo e alle operazioni di salvataggio dei naufraghi.
«Il problema è che l’Ue non è stata in grado di dotarsi delle competenze per gestire un problema che invece è eminentemente regionale. E così le risposte finiscono per essere di tipo bilaterale, o mini-laterale. Ci si limita al Paese nelle cui acque territoriali si trova a transitare il natante, o a spostare il problema delegandone la gestione ai paesi di transito, un approccio che non va nella direzione auspicata dalla visione multilaterale della cooperazione allo sviluppo promossa dall’Onu. Abbiamo 75 anni di esperienza alle spalle, in cui molto si è appreso in materia di tutela multilaterale dei diritti dell’individuo. Abbiamo ereditato un grosso bonus di saggezza, e penso anche ai valori civili promossi attraverso il processo di costruzione dell’Europa unita. Purtroppo adesso siamo di fronte a un momento di rallentamento dell’integrazione, di ripiegamento delle opinioni pubbliche, e di crisi delle leadership, sia nel cuore dell’Europa, che in ambito transatlantico».
Ue a parte, come è possibile che l’Italia che fa parte dell’Onu sottoscriva patti con la Libia sui campi di prigionia dei migranti che vengono condannati da agenzie dell’Onu stessa, come l’Unhcr? Non c’è un cortocircuito logico, politico e forse giuridico?
«Sembra che ora il governo italiano stia ridefinendo quegli accordi. Come dicevo prima, ha prevalso la via bilaterale su quella regionale o multilaterale, con l’aggravante che gli accordi sono stati stretti con un interlocutore in condizioni estremamente precarie, il “non-sistema” libico. E questo è per la verità un problema di tutte le autorità che negoziano con paesi in via di sviluppo dove sono in atto conflitti militarizzati, e più in generale caratterizzati da elevata fragilità istituzionale. Quando si interviene e si finanzia una parte in causa occorre fare particolare attenzione, diversamente si rischia di diventare complici. Per questo sono fondamentali organismi come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati».

A proposito di organizzazioni internazionali, lei ha lavorato per 6 anni presso la sede centrale della Banca Mondiale a Washington, e poi si è occupata di questa organizzazione, e dei suoi rapporti con l’Ue, anche nel suo ultimo libro The European Union, the World Bank and the policimaking of aid. Spiega a noi profani qual è il ruolo oggi di questo ente e come è cambiato?
«Si tratta della più grande banca multilaterale di finanziamenti allo sviluppo, cui aderiscono 189 paesi. In origine era certamente il principale finanziatore, oggi non è più così, anche se resta l’unico a base multilaterale. Ci sono nuovi soggetti regionali che si stanno affermando, come la Ndb (New Development Bank, anche detta Brics Bank, voluta da Cina, Brasile, Sudafrica e Russia). Queste banche tuttavia, hanno una vocazione regionale – e non sono in grado di finanziare – come invece fa la Banca Mondiale – progetti su scala globale (penso ai fondi fiduciari per il contenimento delle pandemie o ai fondi per la gestione delle emergenze umanitarie). Inoltre, esse hanno uno stile molto diverso di finanziamento, e non condizionano i paesi creditori al rispetto dei principi di buona governance e tutela dei diritti umani che contraddistinguono invece i finanziamenti della Banca Mondiale. Per questo ritengo che la collaborazione tra organizzazioni internazionali che condividono uno stile di azione improntato al rispetto per i diritti fondamentali degli individui e ai criteri della buona governance sia di crescente rilevanza per il futuro. Anche se più strade dovrebbero essere battute per migliorarle, la Banca Mondiale e la Ue hanno molti aspetti positivi. Se ben perseguiti, i frutti della loro cooperazione nel sostegno allo sviluppo rivestiranno una importanza crescente nel nuovo contesto globale».

Quanto spende l’Italia per la cooperazione internazionale? I finanziamenti sono in calo o in aumento?
«L’Ocse si era posta l’obiettivo dello 0,7 percento rispetto al Pil, anche se la media è ferma allo 0,31 percento e l’Italia è addirittura allo 0,24. Per fortuna ci sono paesi come Svezia e Regno Unito che invece superano l’1 percento. Ma a fronte di un generale rallentamento, ci sono paesi come gli Emirati Arabi che invece hanno aumentato le donazioni (anche se non la trasparenza di questi finanziamenti)».

Ma questi aiuti che scopo devono avere? Qual è la filosofia? Dobbiamo “aiutarli a casa loro” solo per evitare che “vengano a casa nostra”? È davvero questa la soluzione e lo scopo?
«Eviterei di generalizzare e porrei invece l’accento sulla necessità di fornire risposte adeguate ai diversi tipi di bisogni. Da un lato occorre fare di più per l’integrazione e l’inclusione entro i paesi industrializzati, dall’altro non ha senso fermare flussi di persone che passano attraverso le frontiere. Non si possono costruire muri in eterno, così come non si può vivere in sistemi chiusi al resto del mondo: l’integrazione è in atto e crescerà ulteriormente, si tratta di capire come gestirla. Oggi il sistema multilaterale di cooperazione allo sviluppo ha molti più strumenti ed esperienza rispetto al passato, dobbiamo saperli usare. Mi sentirei di dire che il sostegno allo sviluppo e all’inclusione vanno perseguiti dove ce n’è bisogno. Soprattutto occorre capire che la cooperazione allo sviluppo è un investimento per il futuro per tutti, perché viviamo in un mondo globale dove avrà sempre meno senso distinguere tra “casa nostra” e “casa loro”».

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