Lo studioso: «Dante è difficile da capire, sbaglia chi fa credere il contrario»

Domenico De Martino critica l’approccio “alla Benigni” verso l’Alighieri. E su Ravenna: «Stop ai protagonismi e alle rivendicazioni sugli eventi»

06–09 2018 Ravenna Dante 2021 Dho Caffe Letterario Stefano Mazzoni

Domenico De Martino, direttore artistico di Dante 2021

«Dante nostro contemporaneo? Niente affatto. Dante è un autore molto difficile, e richiede uno sforzo per avvicinarsi al suo mondo, assai lontano dal nostro. Ma vi assicuro che lo sforzo sarà ricompensato». Accento fiorentino, docente di filologia dantesca all’Università di Udine e componente dell’Accademia della Crusca, anche Domenico De Martino è “esule” a Ravenna, nelle vesti di direttore artistico del festival Dante2021.  Abbiamo fatto quattro chiacchiere su Dante e Ravenna, al Caffé Letterario di via Diaz, da cui partirà anche questa l’anteprima dell’edizione di Dante2021, festival dlela Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna.

Come nasce il legame tra Dante e l’Accademia della Crusca?

«Il mito di “Dante padre della lingua italiana” nasce proprio dalla Accademia. Nel ‘500 c’era il problema di definire cosa fosse la lingua italiana, fu la Crusca a scrivere il primo Vocabolario di italiano, e per decidere quali parole inserirvi fece riferimento ai termini usati dai tre poeti che diventarono cardine della lingua: Dante, Petrarca e Boccaccio».

All’epoca dell’Accademia della Crusca però erano passati più di trecento anni dalla scrittura e della Commedia ne esistevano diverse versioni in circolazione, come scelsero quella più affidabile?

«Nessuna copia della Commedia autentica si era conservata, nemmeno un autografo di Dante era sopravvissuto. Esistevano solo trascrizioni di trascrizioni, e spesso differivano tra loro. Ne trovarono 90 versioni diverse. Fu un attento lavoro quello che portò a determinare quale fosse più affidabile, ma ancora oggi la diatriba non è conclusa».

Quanto influisce oggi quella decisione degli accademici sull’italiano che parliamo?

«Moltissimo, basti pensare che l’80 percento delle parole dell’odierno italiano sono contenute nella Divina Commedia. Alcune le inventò lo stesso Dante come “indiarsi”, che significa “pervadere l’altro”, “partecipare alla sua beatitudine”, altre erano in uso nel volgare parlato, ma fu lui il primo a scriverle, come “muffa”».

Quest’ultima forse ha imparato a conoscerla bene nell’umida Ravenna… Quanto il suo esilio ha influito nel “vocabolario” dantesco?

«Molti termini sono, ovviamente, del volgare fiorentino, ma altri li apprese in giro e li volle inserire, come “arzanà”, l’arsenale, parola che conobbe a Venezia. Infatti a Firenze non esisteva un arsenale. Così fece con altri volgari, altre ancora le prese dal francese. Dante diceva che il Volgare Illustre è come la pantera che diffonde in ogni luogo il suo profumo ma in nessun luogo appare. Era una lingua che non esisteva, o meglio esisteva in moltissime forme diverse in ogni città, in ogni quartiere. Lui scelse quali parole usare con grande perizia».

Che percezione hanno oggi gli italiani di Dante? Quanto si discosta dalla realtà?

«Un errore che fanno alcuni divulgatori, come Benigni, è quello di far credere alla gente che Dante sia nostro contemporaneo, e che possa essere semplice da capire. “Basta ascoltare la melodia dei suoi versi”, a volte si sente dire. Non è affatto così. Dante è molto difficile da capire. Come diceva un grande dantista come Gianfranco Contini: occorre una grande fatica, ma più si fatica più si gusta l’ingegno della sua opera. Il rischio è quello di vedere “Dante”, “Beatrice”, “Uguccione”, eccetera, come tante immaginette di una storiella, in realtà la costruzione dei versi è il vero prodigio di Dante. Per questo in Dante2021 terremo incontri specifici sugli incipit dei canti, tenuto da Luca Serianni, e anche sull’importanza di Dante nel mondo. Dante in Cina fu tradotto per la prima volta nell’800 e subito fu ripreso da Lu Xun, che all’inizio del ‘900 fondò la lingua cinese moderna coniando un volgare, come fece Dante in Italia».

Tra poco ricorrerà il settecentenario della morte di Dante, cosa si aspetta per questo fatidico 2021?

«Vorrei fare un appello “politico”: a Ravenna si fanno lotte tra famiglie come nel medioevo. Ognuno vuole rivendicare la propria paternità su questa o quella iniziativa, e alcuni vorrebbero l’esclusiva su Dante. Bisognerebbe abbandonare i protagonismi. Noi siamo foglie destinate a cadere, Dante è qualcosa di eterno che può essere un faro per la città di Ravenna, che è l’unica ad avere il diritto di rivendicare la paternità di questo appuntamento storico. Dante diceva di scrivere per la “futura gente”, ora tocca a noi, tutti assieme onorarne la memoria. Molte persone visitano la tomba di Dante, è chiaro che non lo fanno per vedere il marmo, ma perché Dante è uno dei pochi simboli in cui tutti gli italiani si riconoscono. Non perdiamo questa grande occasione per manie di protagonismo di singoli».

 

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