Razzolano bene i magnifici pennuti allevati nell’imolese da Davide Montanari

Nel podere di famiglia cura oche, anatre, pollame, tacchini e colombi, tutti rigorosamente romagnoli, di razza autoctona. «Non è un’impresa, è una passione, impegnativa ma non certo remunerativa»

Davide Montanari AllevatoreDavide Montanari è un signore di una certa stazza, simpatico e arguto, a cui piacciono tutti gli animali della fattoria, con una predilezione particolare per i pennuti. È cresciuto nel podere imolese dei nonni materni, con i campi e la stalla e l’aia, dove razzolavano varie specie avicole. «Da bambino passavo tutto il tempo a contatto diretto con gli animali – premette –. Anche quando giocavo coi Lego costruivo recinti dove collocarli. E mia madrea dice che sto giocando ancora oggi. Forse ha ragione perché la mia più che una professione o un’azienda resta una passione…».

Allora capiamoci, la sua non è impresa dalla quale ricava da vivere?
«Direi piuttosto che è un hobby impegnativo e peraltro costoso più che remunerativo. Io in realtà faccio un altro mestiere. Se dovessi campare con l’allevamento delle razze autoctone sarei più magro (ride). Diciamo che questa attività è nata come una passione poi, cammin facendo, sono entrato in un’associazione che si chiama Arvar (Associazione razze varietà autoctone roma- gnole, ndr) e si dedica al recupero delle razze zootecniche autoctone dell’Emilia-Romagna».

Ma quali sono gli animali che alleva, tutti pennuti?
«Ho inizato con le oche, poi ho aggiunto i polli, i tacchini, le anatre e poi, grazie a un bando della provincia di Ravenna, ho iniziato ad allevare anche i colombi. Questa è stata un po’ l’evoluzione che resta però di un’attività non imprenditoriale».

E gli animali sono tutti di origine autoctona.
«Si tratta di razze avicole della bassa corte romagnola. Tutti quegli animali che sono spariti dalle campagne, un po’ perché l’attività agricola e zootecnica diffusa si è notevolmente ridimensionata, un po’ perché certi animali sono stati sostituiti con razze diciamo più selezionate alla produzione massiva e veloce. Mentre le razze autoctone si erano evolute sulla base dell’organizzazione contadina di un tempo, in particolare la mezzadria, dove non c’era un granché di nutrimenti perché erano indirizzati agli umani e alle bestie più grandi. Così dovevano arrangiarsi nel trovare nell’ambiente intorno alle cascine il sostentamento anche con sottoprodotti dell’agricoltura o alimenti selvatici. Sono animali a crescita lenta, liberi di razzolare e pascolare, trasformando cose povere in buona sostanza».

Il più tipico è il pollo romagnolo, dal piumaggio fulvo, che se ne va in giro per l’aia, tra pagliai, fossi, filari…
«Beh, di polli romagnoli ce ne sono di vari colori. I contadini mezzadri così riuscivano un po’ a travisare il fattore rispetto al numero di animali che in realtà allevavano. Al padrone non piaceva che i suoi mezzadri avessero troppi animali intorno, che non riusciva a sfruttare e anzi gli “mangiavano” la proprietà. Per questo il padrone veniva compensato con qualche galletto, cappone, gallina… Quello che interessava la famiglia contadina era anche la produzione di uova. Spesso le donne che si occupavano della raccolta, distinguevano dal colore – nero, bianco, rosso… – le migliori produttrici dalle altre, che così finivano prima in pentola o al mercato. La selezione di queste razze in fondo è avvenuta in modo pratico, per cui oggi abbiamo galline particolarmente adatte a fare le uova, e l’oca, che come produttrice di uova non la batte nessuno».

Lei prima parlava di colombi, non immaginavo facessero parte degli animali da cortile.
«Il colombo romagnolo ha una certa taglia e non vola più di tanto, altra cosa è il piccione viaggiatore: sono parenti molto stretti, ma quest’ultimo è un’abile volatile, come noto, con un grande senso dell’orientamento che lo porta a tornare sempre al proprio allevamento».

Ma tutte queste razza avicole fanno buone uova?
«Le uova sono il sistema di riproduzione. E tutte le razze sono state selezionati anche per la loro capacità di fare numerose uova. Nella fase riproduttiva gran parte delle uova sono indirizzate a far nascere nuovi animali per incrementare il patrimonio zootecnico di queste razze, ma son tutte buone per la mensa o per fare la pasta fresca. Per esempio, l’uovo di anatra e di oca dona elasticità alla sfoglia, che si secca meno rapidamente, e quando si fa la pasta ripiena si presta molto meglio ai tempi più lunghi di lavorazione, che so, del cappelletto».

Le uova di oca sono imponenti rispetto a quelle degli altri animali da cortile.
«Dipende dalle razze anche qui, ma l’oca romagnola fa uova che vanno da un peso di 150 grammi fino ai 250. Un prodotto molto sostanzioso oltreché buono».

Qual è il periodo vitale di questi animali?
«Se parliamo di pollame nato a inizio primavera, per i galletti la fine arriva in autunno, i capponi arrivano a Natale come tradizione, le pollastre invece, utili per la deposizione delle uova, possono restare in vita dai tre ai cinque anni, a seconda della produttività. Rispetto alle razze degli allevamenti intensivi – che sono sottoposte a un regime di luminosità e calore costanti per produrre il massimo in fretta – e quindi stressate, i polli romagnoli che vivono all’aperto, seguono i ritmi della natura e quindi la produttività è variabile a seconda delle stagioni e in particolare dal periodo di luce. Insomma si prendono in certe fasi un po’ riposo e per questo hanno una longevità produttiva più lunga».

Quindi è anche vero che gallina vecchia fa buon brodo
«Certamente, le carni più strutturate, sostenute, più sapide sono ideali per essere cotte per molte ore e ricavare un brodo eccellente».

E con l’oca che cosa si fa oltre alle uova, quando ha chiuso il suo ciclo vitale, mica come i francesi il foie gras?
«No no, le nostre oche non le torturiamo ingozzandole. L’oca a fine carriera, oppure i maschi in sovrannumero, vengono avviati per la mensa. Si possono fare tanti piatti diversi, ma anche prosciuttini e insaccati, seppure si tratta di un uso più del nord della Pianura Padana che della Romagna, dove la tradizione era invece quella conservare la carne d’oca cucinata in vasi di terracotta sigillati col suo grasso. L’oca in fondo è sempre stata una miniera di proteine, per le popolazioni più povere e a rischio di indigenza delle campagne, ricavate peraltro da un animale che si ingrassava mangiando l’erba dei fossi».

Ma lei si occupa anche della trasformazione in cibo dei suoi animali?
«La mia missione principale è allevarli, portarli alle fiere e cederli ad altri allevatori che intendono incrementare il patrimonio di queste razze che erano quasi estinte. Certo che la produzione di uova viene raccolta e in piccola parte venduta a cultori delle cose genuine, ad altri contadini o comunque a consumatori finali. E se sono gli animali che allevo li cedo solo da vivi».

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