Balzani: «Regione Romagna? Aveva senso nel 1948, oggi meglio la provincia unica»

Le riflessioni dello storico e docente universitario con un passato da sindaco: «Dove la gente si definisce romagnola, quella è Romagna»

Balzan

Roberto Balzani, ex sindaco di Forlì, ora presidente dell’Istituto regionale dei Beni Culturali

«Dove finisce la Romagna? Dove i cittadini smettono di sentirsi romagnoli». Il concetto è meno lapalissiano di quanto sembri ed è uno degli argomenti per cui Roberto Balzani, storico, docente universitario a Ravenna, ex sindaco di Forlì e ora presidente dell’Istituto regionale dei Beni Culturali, è convinto che quello del referendum per l’istituzione della Romagna sia un tema «fuori dal tempo». Della Romagna Balzani si occupa da tempo. Nel 2001 ha pubblicato per Il Mulino “La Romagna – Storia di un’identità”. Nel 2016 è uscito “Amarcord Romagna – Breve storia di una regione e della sua idea da Giulio Cesare ad oggi”, scritto per Minerva Edizioni insieme al giornalista Giancarlo Mazzuca.

Professor Balzani, cosa ne pensa dell’idea di creare una regione Romagna, indipendente dall’Emilia?
«Quella del referendum e dell’indipendenza mi pare un’ipotesi fuori dal tempo. Prima che dalla Lega, è una strada sostenuta dal Mar (Movimento per l’autonomia della Romagna, ndr) ma che avrebbe avuto senso nel 1948. Oggi ci si muove nella direzione opposta, quella che cerca di accorpare più che di dividere. Tra la situazione attuale e la Regione autonoma ci sarebbe però una via di mezzo».

Quale?
«Quella della provincia unica, o dell’area vasta. Credo sia più che sufficiente per la dimensione romagnola. Il processo, in vari ambiti, è in atto e c’è un organo che avrebbe potuto fare da costituente, per così dire: è l’assemblea socio-sanitaria di Romagna. Si poteva benissimo utilizzare per questo scopo ma si è deciso altrimenti».

Le Province però hanno sempre meno potere nel quadro legislativo attuale.
«Senza dubbio. Però una Provincia unica romagnola potrebbe chiedere alla Regione maggiore autonomia decisionale. Si tratta di un processo fattibile a costituzione invariata. Un tempo a questa ipotesi si opponeva la sinistra, oggi non è più così, le resistenze semmai vengono dai municipi. In Romagna c’è un marcato municipalismo e purtroppo capita spesso che siano più integrati tra di loro i cittadini che i sindaci».

Che rapporto aveva con i colleghi quando era sindaco di Forlì?
«Su alcune questioni c’è stata una forte collaborazione. Ho sostenuto con convinzione la candidatura di Ravenna a Capitale Europea della Cultura perché pensavo che potesse essere una grande occasione per l’area romagnola. Anche sull’unione dei trasporti pubblici ho dato il mio sostegno iniziale, sperando che ne venisse fuori un’impresa pubblica più che una mera unione amministrativa. Lo stesso discorso vale per l’Ausl unica, poi ho criticato il fatto che non si stesse perseguendo una vera e propria unione organizzativa. Del resto ogni città è orgogliosa del proprio ospedale, non è semplice. Insomma, i rapporti sono stati un po’ altalenanti».

Perché la richiesta di autonomia è così forte in Romagna e non lo è in Emilia?
«Per vari motivi. Innanzitutto in Emilia i municipalismi sono ancora più forti rispetto alla Romagna. Bisogna tenere presente che si parla di province molto grandi, a Modena ad esempio ci sono oltre 700mila persone. Inoltre esistono rivalità tra centro e periferia: a Parma chi abita in città si definisce “parmigiano”, chi è in provincia “parmense” e guai a confondere. Infine ci sono fattori storici di lungo periodo e altri geografici: Piacenza è nell’orbita della Lombardia, Ferrara non sa con chi stare e probabilmente vuole stare da sola».

I cittadini romagnoli invece si riconoscono come tali?
«Nonostante le differenze, c’è un comune sentire. L’identità romagnola è un prodotto culturale più che una realtà di tipo etnico. Gastronomia, folklore, tradizioni: c’è una narrazione che crea un movimento centripeto».

Come viene accolto dai lettori quando gira la Romagna per presentare il suo libro?
«All’epoca del primo libro, nel 2001, c’era un rifiuto di questi concetti, di un’identità culturale più che di popolo. Oggi le cose sono cambiate, c’è curiosità nel vedere i punti in comune che hanno creato questa identità. Per questo credo che la Romagna sia pronta ad una realtà politica intermedia che sarebbe vista di buon occhio mentre volere una regione autonoma significa alzare la posta. È un peccato: da tempo parlo di Romagna e mi dispiace che la politica la usi per i suoi scopi ed un tema, quello della secessione dall’Emilia, che non è più sentito».

Senza contare che prima bisognerebbe tracciare i confini. Imola, ad esempio, dove sta?
«Credo che gli imolesi vivano una forte tensione interna, si sentono romagnoli ma dal punto di vista economico ed amministrativo sono bolognesi. I confini sono dati dalla testa delle persone non dalle rivendicazioni. Dove la gente si definisce romagnola, quella è Romagna».

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