Il destino ineluttabile di una “vita squilibrata”

Fausto PiazzaIn questi giorni di domicilio coatto ho rivisto un film del 1982 dal titolo strano e letteralmente complicato: Koyaanisqatsi, opera prima cinematografica di una trilogia declinata in qatsi, del regista Godfrey Reggio, musicata dal genio del minimalismo sonoro Philp Glass, di cui disponevo in casa un cofanetto.

Immagini stranianti e musiche potenti indissolubilmente legate fra loro per un messaggio, senza parole, dedicato alla condizione del pianeta e dell’uomo contemporaneo. Una poetica visionaria in bilico fra artificio e natura, forse culturalmente datata ma feconda progenitrice dell’attuale critica dell’antropocene, o più semplicemente dei danni procurati dall’umanità alla natura, e quindi a se stessa.

Questo punto di vista mi è stato suggerito da una conversazione con uno dei direttori artistici del Ravenna Festival, Franco Masotti, che mi aveva raccontato, appena un mese fa, le suggestioni di questo storico capolavoro che dovrebbe aprire l’edizione 2020 della manifestazione a inizio giugno, con una proiezione del film su grande schermo e la musica dal vivo eseguita dall’ensemble di Glass, coro e orchestra.

Anche se me lo auguro, non è possibile sapere se l’evento spettacolare avrà luogo così come è stato ideato e organizzato dal festival, ma di certo quest’opera apre una serie di inquietanti riflessioni sulla situazione drammatica e disorientante che stiamo vivendo con la pandemia da coronavirus. A partire proprio dal titolo Koyaanisqatsi, una profezia di sventura che nella lingua degli indiani Hopi (pacifici e mistici nativi americani che l’antropologa Ruth Benedict nei suoi Modelli di cultura avrebbe definito apollinei) così recita: “vita folle”, “vita tumultuosa”’, ”vita in disintegrazione”, “vita squilibrata”, ”condizione che richiede un altro stile di vita”.

Sono termini che ci inducono a pensare come il virus che oggi affligge il pianeta sia lo spartiaque di un’epoca limite. Da una parte, virale è il risultato dell’ennesima violazione di un ecosistema, di un equilibrio naturale, che ha indotto un’osmosi deleteria tra la frenetica civiltà della globalizzazione e la sfera del selvaggio. Dall’altra, virale è l’agente indifferente e imprevedibile che genererà ulteriori squilibri, disuguaglianze e disintegrazione nella vita sociale degli essere umani. Si corre il rischio di una prospettiva “tumultuosa”, una deriva autodistruttiva che non risparmia nessuno, che riguarda il globale ma anche il locale, il mondo opulento e quello della miseria, la dimensione dei privilegiati e dei diseredati. Un viatico verso l’apocalisse, sembrano ammonire gli sciamani Hopi.

L’auspicio, quando saremo fuori da questo incubo e dovremo impegnarci a ricostruire ciò che è stato devastato, è che ci sia un autentico ripensamento del senso di comunità in cui vogliamo vivere, dell’equilibrio ambientale e sociale e dell’agire in modo sostenibile. Citando un recente corsivo di Michele Serra intitolato “Impariamo a cambiare vita”: «…lei che ha studiato, non crede che fermarci, chissa, può servire a capire qualcosa? Non era mica giusto, sa, vivere come si viveva prima».

Meditiamo, gente, meditiamo…

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