Dopo il no alle armi per Israele, altre domande nel futuro dei portuali

Porto ContainerI lavoratori del porto di Ravenna dicono di «essere consapevoli che il loro atto di testimonianza neppure lontanamente costituisca una azione risolutiva per la soluzione del conflitto», ma credono che fosse «necessario e ineludibile» mandare un messaggio «per contribuire a creare le condizioni durature per la pace tra i popoli israeliano e palestinese e per il loro diritto a vivere pacificamente in un proprio Stato libero ed indipendente». L’atto di testimonianza di cui sopra – i virgolettati sono tutti presi testualmente da note diffuse dai sindacati – è stato proclamare uno sciopero per il 3 giugno per rifiutarsi di imbarcare un container con materiale esplosivo diretto a un porto dello Stato ebraico.

Due ore dopo averlo proclamato, è stato revocato perché i sindacati nel frattempo hanno saputo che l’agenzia marittima aveva rinunciato alla spedizione. I portuali cantano vittoria. E in effetti, a memoria, è uno dei pochi casi in cui uno sciopero abbia ottenuto risultati ancora prima di incrociare le braccia. Va però anche detto che l’occasione era particolarmente ghiotta per portare a casa la vittoria. C’erano già stati altri porti che avevano contestato la spedizione: il primo porto a non fare la stessa cosa finirà per passare brutto e cattivo. E si fa fatica a trovare qualcuno che difenda apertamente il trasporto di armi per la guerra.

L’iniziativa diventa un precedente che chiamerà sindacati e lavoratori a fare i conti ancora con la propria coscienza, con l’opinione pubblica e con la coerenza.

2118 Navi Al PortoPerché capita almeno due-tre volte all’anno che sulla banchina del Tcr vengano movimentati container con la stessa classificazione di pericolosità di quello che sarebbe dovuto partire per Ashdod. La categoria, secondo gli standard internazionali, è quella del materiale esplosivo. Quindi potenzialmente materiale bellico o sue componenti. Ma non solo armi. Capita due-tre volte all’anno, si diceva, ma alle cronache locali non risultano scioperi etici nel passato. Si dirà che i tempi cambiano e con loro le sensibilità. Vero. Allora adesso che è stato fissato un paletto, la prossima volta che arriverà un carico con la stessa carta di identità, che faranno i portuali? Se diretto in Medio Oriente si sciopera e se altrove invece no? Le armi portano morte solo tra israeliani e palestinesi? Se le armi andassero sull’altra sponda del Mediterraneo a beneficio di chi opera per bloccare le partenze di migranti? Domande che la coerenza d’ora in poi imporrà.

Ma per alimentare interrogativi di coscienza non serve nemmeno maneggiare container di armi. Anzi, è quando togli le armi che diventa più scivoloso il terreno dell’etica. Ogni volta che arriverà un carico dalla Cina bisognerà farsi domande simili. Quei capi di abbigliamento da quali mani sono stati cuciti? E quei giocattoli in quali condizioni sono stati assemblati? Ma perché fermarsi ai beni di consumo e non arrivare ai generi alimentari? Per il caffè dal Sudamerica qualcuno proporrà di scioperare perché quei lavoratori patiscono condizioni di sfruttamento?

Tcr ContainerInsomma, i fermi per questioni etiche potrebbero moltiplicarsi. Con un rischio teorico ma realistico: se a Ravenna non si dovessero più imbarcare merci “scorrette”, i portuali avranno una bella medaglietta da sfoggiare ma gli armatori faranno uso di altri scali italiani con la perdita di traffico a Ravenna e forse posti di lavoro. Ipotesi, solo ipotesi. Ma teoricamente possibili.

E sullo sfondo c’è l’imbarazzo di Sapir, l’azienda di emanazione pubblica che detiene il 30 percento di Tcr. La dirigenza ha provato il più funambolico dei giochi di equilibrio. Le armi si possono spedire perché le leggi italiane lo consentono – e in questo caso fanno parte degli affari in banchina – però passare per guerrafondai pareva brutto e allora ecco la richiesta allo Stato: «Farsi interprete presso tutte le sedi internazionali, della necessità di dare la pace a una delle zone più martoriate del pianeta». Sembra la parodia di quelle che ai concorsi di bellezza chiedono la pace nel mondo.

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