Enia e l’immigrazione: «Si sta creando un’emergenza per nascondere altri problemi»

Lo scrittore e autore teatrale in scena a Cervia e Faenza con il suo L’abisso incentrato sul tema degli sbarchi a Lampedusa

Davide Enia Ph Mario VirgaLa linea telefonica fra Ravenna e Siracusa è disturbata, ma non tanto da celare l’emozione della voce di Davide Enia. Dopo 60 anni di quasi inattività, il teatro Comunale inaugura la stagione di prosa con L’abisso, il suo nuovo spettacolo co-prodotto da Accademia Perduta. «Minchia, il teatro è bellissimo», mi confessa. «L’hanno appena aperto. Ti mando le foto», promette. E me le manda.

L’abisso è tratto da Appunti per un naufragio, libro con cui Enia ha vinto il Supermondello e il MondelloGiovani, e a giudicare dalle prime recensioni la fortuna del romanzo sembra riverberarsi anche sulla scena. Lo spettacolo farà tappa il 12 e 13 dicembre al Walter Chiari di Cervia (dove il 13 alle 18 incontrerà anche il pubblico) e il 17 al Masini di Faenza.

Dopo 11 anni è tornato in teatro. Perché un’assenza così prolungata? E cosa l’ha spinta a tornare?*
«Mi ero rotto i coglioni. Non mi andava di dover essere colluso con un sistema che si stava abbassando sempre di più. Tornare è stato un impulso egoistico. Col romanzo non avevo creato la giusta distanza tra me e i fatti. Avevo bisogno di continuare ad approfondire l’altro mio linguaggio, quello del teatro, per scrivere sul mio corpo cosa significa stare sull’orlo dell’abisso».
È paradossale. Nella visione comune, il teatro accorcia questa distanza.
«Scrivere ti fa riflettere sull’eredità culturale che abbiamo attorno al libro, al nostro modo di cercare sulla pagina un deposito di verità che appartiene al lettore. Il teatro ti permette invece di scrivere col corpo. Attraverso la performance mi rimetto nello stato di chi nomina le cose per la prima volta».
La lavorazione de L’abisso è stata lunga: è passato quasi un anno da quando vidi un primo studio a Faenza. L’equilibro trovato vi soddisfa?
«Io e Giulio Barocchieri, il musicista che mi accompagna, siamo molto soddisfatti. Ma molte cose non puoi calcolarle, vanno al di là dello spettacolo. Spesso accade un cortocircuito con gli spettatori, che rimangono con noi a parlare e ad abbracciarci anche dopo lo spettacolo. Abbiamo intercettato qualcosa, non saprei come dirlo altrimenti».
Uno dei punti centrali de L’abisso è la cucitura fra la sua biografia e l’evento storico della migrazione, raccontata attraverso gli sbarchi a Lampedusa. C’era nel testo una tensione quasi psicanalitica: usava spesso la parola “slatentizzare”, rendere esplicito il non-detto.
«Nello spettacolo non la uso più, ma parlo ancora del trauma e della necessità della sua denuncia».
Questa tendenza a nascondere il trauma si può definire ipocrita?
«Non lo è, perché non parlarne è soltanto un danno. È un’eredità culturale che condividiamo con tutte le popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo. Un paternalismo che, statisticamente, ci porta a rimuovere la dimensione del dolore perché considerata vergognosa».
Il 28 novembre è stato approvato il cosiddetto “ddl Salvini” sulla sicurezza, che dà una stretta di vite alla possibilità di accogliere legalmente i migranti. Il 30 è stato premiato col Mondello. Crede che la scelta della giuria voglia lanciare un messaggio alla società italiana?
«Non lo so, bisognerebbe chiederlo ai 120 giurati e ai 180 studenti che scelgono il vincitore. Si può dire una cosa: un decreto che revoca la protezione umanitaria è disumano. Fa sprofondare indietro nei secoli il pensiero e la nostra cultura, improntata da sempre all’accoglienza e all’aiuto dei più deboli».
Perché si parla tanto di immigrazione?
«Si sta creando un’emergenza per evitare di parlare di altri problemi: i piani economici fanno acqua da tutte le parti, lo spread è impazzito. Si cerca sempre un nuovo nemico. Ma una politica improntata alla costruzione dell’odio non ha molto da offrire. È la banalità della slatetizzazione di pulsioni primarie, che non so nemmeno quanto siano consapevolmente razziste».
Intende dire che il razzismo raccontato è più forte di quello reale?
«Non lo so. Ma è un po’ come succede sui social: nel mondo reale è più difficile essere così violenti. Vorrei sapere quante persone, davanti a una donna incinta al sesto mese sfollata da uno Sprar, abbiano il coraggio di non aiutarla, di non provare vergogna per averlo permesso. Ciò che vedi cambia il tuo pregiudizio».
Vedere gli sbarchi a Lampedusa l’ha cambiata?
«Avevo pregiudizi che sono crollati dal primo momento in cui ho visto i migranti. Primo fra tutti quello di non pormi come una persona in cerca di soluzioni, ma piuttosto come un ascoltatore. Non formulare per forza un giudizio, ma ascoltare».

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