«Quanti pezzi grossissimi si occuparono di questo caso». Eppure nessuno fu indagato

Il presidente della corte d’assise di Ravenna, Michele Leoni, in aula sottolinea la sfilata di vertici dei carabinieri che nel 1987 si interessarono al caso del militare di leva sequestrato e ucciso. Alla sbarra ci sono altri due ex dell’Arma

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I giudici togati della corte d’assise: presidente Michele Leoni, a latere Federica Lipovscek

Per mandare avanti le indagini sul sequestro del 21enne Pier Paolo Minguzzi, il carabiniere di leva di Alfonsine rapito il 21 aprile 1987 per estorsione ma trovato morto dieci giorni dopo, all’epoca dei fatti si mossero i pezzi grossi dell’Arma. Ma nel dibattimento in corte d’assise – in corso ora perché 34 anni non sono bastati a trovare un colpevole – si allunga l’elenco dei pezzi piccoli che raccontano di aver avuto sospetti ma non furono ascoltati o non furono messi in condizioni di verificare quei sospetti. L’ultimo che si è aggiunto alla lista è Mario Renis, allora vicecomandante della stazione di Alfonsine. Il 63enne ora in pensione ha testimoniato ieri, 27 settembre.

Per capire le parole di Renis occorre aver presente una circostanza. I tre odierni imputati – l’ex idraulico Alfredo Tarroni e i due ex carabinieri Angelo Del Dotto e Orazio Tasca – hanno già scontato pene ventennali per un omicidio di luglio 1987: morì un carabiniere nell’epilogo di un tentativo di estorsione ai danni dei Contarini, un’altra famiglia di imprenditori dell’ortofrutta di Alfonsine.

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Udienza in corte d’assise per l’omicidio Minguzzi del 1987

Prima del tragico epilogo, Renis lanciò l’allarme: «Mi fecero ascoltare la registrazione di una delle telefonate fatte dagli estorsori a Contarini e appena sentita non ebbi dubbi che era la voce di Tasca. Quell’accento siciliano e quella parlata non erano confondibili. Lo dissi subito al capitano Antonio Rocco, comandante della compagnia carabinieri di Ravenna. Mi disse che avrei dovuto parlarne al colonnello Masciullo, il comandante provinciale. Quando andai per incontrarlo trovai Rocco a dirmi che lo aveva già informato e non c’era bisogno andassi io». Si decise di fare una verifica “fatta in casa”: «Dal comando di Ravenna chiamai la caserma di Alfonsine e mi feci passare Tasca con una scusa mentre registravamo la conversazione. Quando la riascoltai non riconobbi la sua voce e nemmeno la mia».

Nell’interrogatorio condotto dalla pm Marilù Gattelli, Renis ha ricostruito i fatti di allora, dimostrando una memoria più lucida rispetto al gestore del bar Agip di fronte a casa dei Minguzzi la cui testimonianza è stata una serie di «non ricordo». Il militare ha detto di non aver mai ascoltato le registrazioni delle telefonate ricevute dalla famiglia Minguzzi due mesi prima del caso Contarini: «Non avevo seguito personalmente il caso Minguzzi e nessuno mi fece ascoltare quelle telefonate». Le ascoltò solo a marzo 2018 alla riapertura delle indagini. Lo scorso giugno invece Aurelio Toscano, il comandante della stazione, disse che Renis riconobboe la voce di Tasca proprio ascoltando le telefonate del sequestro Minguzzi. Una divergenza di poco conto: resta il fatto che Toscano afferma di aver comunicato al pm i sospetti su tasca, rimasti inascoltati.

Assise4Renis non è il primo teste che si stupisce, più o meno esplicitamente, di come furono condotte le indagini. Eppure nella caserma di Alfonsine, per ammissione di tutti i militari finora ascoltati, erano presenza quotidiana i più alti papaveri della Benemerita: dal maggiore Tesser che comandava l’odierno Ros di Bologna fino al generale Sassi della brigata di Bologna, la più alta autorità in regione. «Pezzi grossissimi», ha sottolineato il presidente della giuria Michele Leoni, sempre più interessato a far luce sui sospetti di insabbiamento: nessun nome era mai stato inserito nel registro degli indagati fino a tre anni fa.

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