Se al Bronson di Ravenna irrompe la sindrome di Trent Reznor

L’esempio italiano più fulgido è Edda, sopravvissuto cantautore in concerto il 9 dicembre nel rock club di Madonna dell’Albero

EDDA 180519 ALTA12

Edda

C’è quella citazione celeberrima da Nick Hornby: ascolto musica triste perché sono un miserabile o sono un miserabile perché ascolto musica triste? Difficile risolverla, a venticinque anni di distanza da Alta Fedeltà. Il personaggio di Rob Fleming, per dirla tutta, ha caratteristiche specifiche che non sono necessariamente applicabili a tutti noi. Ho conosciuto un sacco di gente infelice con pessimi gusti musicali, e perfino qualche esperto di musica soddisfatto di come gli sono andate le cose nella vita. Non tutti noi siamo (per fortuna) personaggi bidimensionali, scolpiti nella pietra, degni di finire in un libro.

La maggior parte di noi va incontro a stagioni bellissime e stagioni orrende della vita e decide di volta in volta d’accompagnarle con la musica che più gli/le aggrada. Certo, personalmente mi sentirei ipocrita se dicessi di non essere affascinato dalla caratteristica liberatoria della musica. Di questo aspetto catartico non si parla spesso perché presuppone un certo grado di sadismo/masochismo nell’esperienza dell’ascolto, ma credo sia giusto ammettere che la sofferenza di qualcun altro, se unita alla sua capacità di scrivere e suonar canzoni, può salvarti la vita. E questo può creare un meccanismo di fascinazione per la sofferenza che può uscire dai limiti del ragionevole e diventare una tossicodipendenza come un’altra, una condizione patologica. Io la chiamo sindrome di Trent Reznor.

Prende il nome dal cantante/demiurgo dei Nine Inch Nails, uomo che ci ha regalato capolavori immortali del pop raccontandoci il suo desiderio di porre fine alla sua vita, e che ha iniziato a fare dischi molto modesti una volta risolti i problemi con se stesso. La sindrome di Trent Reznor è quella dimensione del rapporto tra un certo tipo di artista e un certo tipo di pubblico che si fonda sul mutuo riconoscimento di una miseria umana spesso indicibile, e sul fatto che la fine di quella miseria umana possa significare, molto spesso, la fine di quel rapporto. La sindrome di Trent Reznor ha molti modi di manifestarsi, ad esempio il bisogno di essere in un certo stato d’animo per ascoltare un certo tipo di musica, o per farla. Un altro è l’inconscio disappunto dell’ascoltatore nello scoprire che un artista è in una buona fase della propria esistenza. Un altro è la crisi artistica del musicista, che spesso percepisce molto più di chi l’ascolta la dipendenza della sua ispirazione dal dolore personale.

Ci sono tante dimensioni. Il metodo più sicuro per continuare un rapporto sano e duraturo tra artisti e pubblico, in presenza di sindrome di Trent Reznor, è continuare a stare come un cane per il resto della propria vita. L’esempio italiano più fulgido ed evidente è quello di Edda, probabilmente il miglior cantautore in attività oggi. Una storia che è un mezzo miracolo. Ex cantante dei Ritmo Tribale, uscito per problemi di tossicodipendenza e riemerso dal niente dopo un decennio di silenzio, costruttore di ponteggi ospitato in comunità.
Inizia a suonare canzoni scritte di suo pugno su un canale YouTube e viene sostanzialmente costretto a registrare un disco. Lo pubblica, e diventa il nostro Johnny Cash. L’anima nera della musica italiana, quello a cui ti rivolgi quando i tuoi rapporti col mondo che ti circonda stanno andando un po’ troppo a sud. Semper Biot: un disco talmente crudo e sofferto che ci si aspettava non avrebbe mai avuto un seguito. E invece, tredici anni dopo, Edda è ancora con noi. Ha realizzato sette dischi, uno dietro l’altro, uno più bello dell’altro, tutti con una precisa ragion d’essere, nessuno ascoltabile in condizioni di serenità interiore. L’ultimo, Illusion, è uscito un paio di mesi fa. Sopravvissuto e sopravvivente, come il disco di Ligabue: canta cose indicibili e lo fa sempre come se fosse l’ultima canzone a lui concessa.

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