Caso Regeni, Amnesty a Ravenna: «Chiediamo ancora verità e giustizia per Giulio»

Paolo Pignocchi, vicepresidente dell’associazione in Italia, al circolo Arci Dock 61 in occasione della proiezione del documentario sulla scomparsa, tortura e uccisione del ricercatore italiano al Cairo nel 2016

Giulio Regeni nel ritratto del ravennate Gianluca Costantini, graphic journalist e attivista per i diritti umani tra i primi a occuparsi della vicenda che ha continuato a seguire nel tempo

Dopo lo striscione sul municipio, dopo le manifestazioni in piazza, il 10 maggio a Ravenna ricorre un’altra occasione per ricordare Giulio Regeni, una battaglia per “verità e giustizia” portata avanti dalla famiglia, da varie associazioni per la difesa dei diritti umani, in primis Amnesty International. E infatti sarà proprio Paolo Pignocchi, vicepresidente di Ammesty Italia a presenziare, alle 19, all’incontro al circolo Arci Dock 61 in via Magazzini Posteriori a Ravenna, prima della visione del documentario “Nove giorni al Cairo: tortura e omicidio di Giulio Regeni” di Carlo Bonini e Giuliano Foschini (La Repubblica). Un documentario in cui si ricostruiscono appunto gli ultimi giorni di vita del giovane ricercatore italiano che nel gennaio 2016 fu trovato privo di vita, dopo essere scomparso per una decina di giorni, morto dopo aver subito torture. Si trovava in Egitto per una ricerca per l’Università di Cambridge e la convinzione di chi si è occupato del caso è che siano coinvolti i servizi segreti egiziani. Da allora i movimenti per i diritti umani denunciano la scarsa collaborazione delle autorità egiziane nelle indagini e non solo.

Vicepresidente, perché continuare così ostinatamente questa battaglia? E con quale mezzi la state portando avanti?
«Perché sono stati violati dei diritti umani e chiediamo verità e giustizia per Giulio Regeni e per tutti i Giulio Regeni che ci sono in questo momento in Egitto, un Paese dove si pratica la tortura. Grazie anche all’impegno di Repubblica , di altre associazioni e naturalmente alla famiglia di Regeni che continua a chiedere giustizia per il figlio, intorno a questa storia è nato una sorta di popolo giallo in grado di mobilitarsi ogni mese in tre date: il 3, che è il giorno in cui è stato ritrovato il corpo brutalizzato, il 14, quando ad agosto 2017 il nostro governo ha rimandato l’ambasciatore a Il Cairo, il 25 per ricordare l’ultimo sms inviato da Giulio».

La scelta dell’Italia di far tornare l’ambasciatore in Egitto ha fatto molto discutere. Lo Stato italiano potrebbe fare di più per ottenere, appunto, “verità e giustizia”?
«Ci avevano promesso che il cambio all’ambasciata avrebbe contribuito a chiarire la situazione, in realtà i risultati ottenuti sono molto insoddisfacenti. Non è arivato nulla di significativo. Noi dobbiamo sapere dallo Stato egiziano dove è morto, chi lo ha ucciso e il perché. Sappiamo che Giulio stava conducendo una ricerca sui sindacati egiziani. Sappiamo per certo che è stato torturato. Ora l’indagine si sposta anche su Cambridge: benissimo, ma noi continuiamo a dire che le risposte devono arrivare dall’Egitto, perché è lì che è morto Giulio».

Giulio Regeni.jpg 1452464513Quanto il caso Regeni è riuscito a uscire dall’Italia?
«Non abbastanza, è una questione sicuramente italiana, ma anche europea e che dovrebbe riguardare l’Onu stessa perché il regime di Al-Sisi viola in modo costante i diritti umani. Sappiamo che centinaia di perdono la vita e la libertà in Egitto. Ma, a cominciare dall’Italia stessa, abbiamo spesso avuto l’impressione che prevalgano altre logiche».

E cosa si risponde alle critiche di chi, anche nella nostra città, in qualche modo dice che “se l’è andata a cercare”?
«Purtroppo si sente dire spesso, ma Giulio era andato a fare un dottorato di ricerca, come altri, con il patrocinio dell’Università di Cambridge, in un Paese che non era segnalato in una lista nera di pericolo. Tra l’altro, come si vede bene nel documentario, era un ragazzo molto attento».

Esiste un rischio di strumentalizzazione politica? Di recente la madre di Giulio ha chiesto che non si ripeta l’episodio di un politico che si fa fotografare sulla sua tomba, come Martina del Pd…
«Non so se sia stata strumentalizzazione, ma di certo è stato un incidente che si poteva evitare, peraltro da parte di chi appartiene a una forza politica che ha fatto parte di due governi che non sono stati particolarmente prodighi nella risoluzione del caso. Nessuno aveva mai visto prima la tomba di Giulio. Il punto è che Giulio non deve diventare di una parte e non di un’altra, dobbiamo tenerlo fuori dall’agone politico anche se i nostri interlocutori saranno comunque politici. Abbiamo apprezzato le parole della neovicepresidente del Senato che ha detto di volersi occupare del caso, indipendentemente dalla forza politica a cui appartiene, ossia il Movimento 5 Stelle. Alle nostre manifestazioni non ci sono mai simboli di partito».

Senza arrivare all’Egittto, abbiamo anche in Italia un problema di violazione dei diritti umani? Il pensiero corre agli accordi con Turchia e soprattutto Libia per bloccare i migranti.
«Abbiamo un problema molto importante sulla Libia. Sono calati gli sbarchi, ma non i flussi migratori: semplicemente queste persone si fermano prima di salpare in situazioni terribili dei centri di detenzione. A questo si aggiunge la demonizzazione delle Ong e di fatto la scelta e il tentativo di lasciare le acque internazionali del Mediterraneo in mano alla guardia costiera libica. Peraltro su quella motovedetta che va a recupare i profughi non sappiamo “quale Libia” ci sia. In realtà l’Italia sta facendo accordi e sta finanziando Stati che potrebbero trovarsi a rispondere di crimini di Guerra davanti a un tribunale internazionale».

Regeni

Lo striscione riappeso nella mattina del 31 gennaio

Sempre per restare al tema della violazione dei diritti umani in Italia, la ferita di Genova 2001 non è stata mai sanata del tutto. Sono recenti nuove polemiche sui colpevoli. E però almeno è stata approvata una legge sulla tortura…
«Noi sui fatti di Genova siamo intervenuti subito e prima ancora intervenimmo per Napoli e poi ci sono stati tanti casi singoli che hanno avuto quella triste sembianza, penso a Cucchi e Aldrovandi, tutti avvenuti in caserme dove non c’è accesso e che sono emersi grazie al coraggio di qualche famigliare e di qualche avvocato. Ciò per cui abbiamo lottato e continueremo a lottare è una legge adeguata sulla tortura. Rispetto a quella approvata nella scorsa legislatura diciamo “per fortuna che c’è”, ma non è la legge che volevamo. Abbiamo lavorato insieme ad altri per questa legge e ora è da modificare. Purtroppo c’è chi, tra le forze politiche, vuole farla passare come una legge contro le forze di polizia, ma non è così, dovremmo uscire da questo tunnel. Chiedere gli identificativi sulle divise di chi opera nell’ordine pubblico è a garanzia anche delle stesse forze dell’ordine, quei singoli che agiscono in violazione dei diritti umani devono sapere che non resteranno impuniti e tutti dobbiamo sapere che quella non è la polizia».

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