«Insistere è l’unico modo per non ammazzare Giulio ogni giorno»

Il giornalista di Repubblica Giuliano Foschini autore del documentario in proiezione al Dock 61. «Il caso Regeni è stato un esempio di buon giornalismo in Italia»

Regeni«A un certo punto, a fine 2017 dopo quasi due anni di inchiesta permanente, ci siamo posti il problema di come far conoscere la storia ancora a più persone possibili. E ci siamo detti, ci vorrebbe un film o un documentario…». Giuliano Foschini, firma di La Repubblica, racconta così la nascita di “Nove giorni al Cairo”, 52 minuti che condensano gli ultimi giorni di Giulio Regeni prima che venisse trovato morto nella capitale d’Egitto il 3 febbraio 2016. Il film, che oltre a Foschini vede tra gli autori il collega Carlo Bonini della stessa testata, sarà proiettato a Ravenna al circolo Arci Dock oggi, 10 maggio, dopo l’incontro alle 19 con Paolo Pignocchi di Amnesty International.
Quanto lavoro c’è stato per arrivare al prodotto finale che vediamo ora sugli schermi?
«Avevamo molte informazioni ma non avevamo mai raccolto immagini quindi da quando abbiamo deciso di fare il documentario sono stati mesi molto impegnativi. È un progetto che ha coinvolto decine di persone, non è solo mio o di Bonini, ma c’è tutta la redazione di Repubblica a partire dal direttore Calabresi al vice Di Feo».
In tempi di multimedialità il prodotto video è un passaggio obbligato per il giornalismo d’inchiesta?
«Il giornalismo deve sfruttare tutte le piattaforme che trova, sono declinazioni diverse ma alla fine c’è sempre il giornalismo. Se il documentario può portare la storia a più persone allora è un risultato positivo».
Che riscontri avete? La storia è ancora seguita?
«Abbiamo ampliato il pubblico ma non ancora abbastanza. La vera scommessa è stata quella di farne un’inchiesta permanente e purtroppo bisogna dire che, anche per via della politica, la società civile sta cominciando a dimenticare. Insistere è l’unico modo per non ammazzarre Giulio ogni giorno».
Con un’inchiesta così importante in cui un giornale si è impegnato con grandi sforzi, si rischia di perdere la giusta distanza e finire per essere coinvolti?
«Io mi sento coinvolto ma coscientemente coinvolto. In un caso come questo il giornalista deve avere chiaro da che parte stare, credo sia una delle poche occasioni in cui il giornalismo deve essere partigiano. La storia di Giulio non attiene al dolore di una famiglia ma alla democrazia di un Paese, è doveroso prendere parte».
I media italiani l’hanno fatto?
«Il caso Regeni è stato un esempio di buon giornalismo in Italia. Nessuno l’ha infangato, non ci sono state speculazioni, i giornalisti hanno fatto bene il proprio mestiere, tutti compatti, e questo non ha permesso alla politica di sbandare almeno nella prima parte».
E invece lo Stato italiano come si sta comportando?
«Il ritorno dell’ambasciatore in Egitto è stato spacciato dal nostro Governo come la conseguenza di un passo avanti nell’inchiesta e invece il passo avanti non c’è stato. Se è tornato per altri motivi bastava essere onesti e dirlo. Ora c’è il rischio di arrendersi perché l’Egitto non sta rispondendo. La procura di Roma sta facendo un lavoro ottimo, anche più di quello che le era possibile, ma non è un organo politico».
C’è stato un momento in cui siamo stati vicini ad avere delle risposte?
«Sì, quando Giulio era diventato un simbolo anche per i Fratelli Musulmani scesi in piazza. In quel momento c’era la percezione che si potesse avere il nome di qualcuno dei responsabili. Però poi è arrivato Trump».
Andrea Alberizia

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