Con un blog ispirò una serie tv Rai e lavora nel marketing: «Influencer? No, grazie»

Nel 2009 Valentina Santandrea creò “Volevo fare la rockstar” dove raccontava la vita da single con tre bambine (usava il wifi del bar per pubblicare online). Profilo Instagram da 2.700 follower: «I social ti possono convincere di essere ciò che non sei. Non ho mai accettato sponsor nel sito per coerenza»

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Valentina Santandrea

L’antenato dell’influencer è il blogger. Bisogna andare indietro nel tempo fino all’epoca in cui i social network non esistevano o erano agli albori – meno di quindici anni fa, tanto per capirci – e la grande opportunità offerta da internet era quella di creare un sito di semplice struttura in cui pubblicare contenuti personali. Una sorta di diario digitale, senza limiti per gli argomenti da trattare. “Volevo fare la rockstar” è il titolo scelto nel 2009 da una ragazza di 26 anni di Brisighella per il suo blog. Si era separata dal compagno e da neolaureata in Scienze politiche si ritrovava con tre figlie di 4-5 anni da crescere da sola: scrivere, come dirà lei stessa in seguito, per Valentina Santandrea era una via di mezzo tra un passatempo e l’autoterapia.

Quel blog è diventato il soggetto di una serie tv omonima – già due stagioni trasmesse dalla Rai – e per la sua autrice è stato una palestra di gestione contenuti online che le ha permesso di trovare un lavoro nel marketing. Santandrea però ha scelto di non fare l’influencer (il suo profilo Instagram conta 2.700 follower).

Santandrea, cominciamo da qui. Dal successo del blog c’erano tutte le premesse valide per imboccare una carriera da influencer sin dalla nascita dei social. Perché non farlo? Soprattutto visto il lavoro nel marketing…
«I social network all’epoca praticamente non c’erano ma li ho conosciuti presto e molto bene per lavoro. Però ho fatto una scelta di coerenza con me stessa: ho la sensazione che essere influencer finisca per farti confondere te stesso con l’identità che trasmetti. Non voglio buttarla troppo sul filosofico, diciamo che nell’autorappresentarsi secondo le regole dei social, finisci per credere nella parte più bella e più smart di te stesso. Per esempio non ho mai voluto accettare nemmeno sponsorizzazioni sul mio blog che all’epoca erano molto diffuse e io avevo 60-70mila page view al mese che a quei tempi erano bei numeri».

Però la produzione di contenuti su uno spazio digitale, anche se contenuti personali, è stata comunque un modo per ottenere una entrata economica?
«Sì, anche se non ci pensavo minimamente quando ho iniziato. C’è stata la vendita dei diritti per la produzione della serie tv e anche il mio primo lavoro nel marketing è arrivato grazie a quel blog. Mi contattò una addetta della promozione del marchio Barilla a cui era piaciuto il mio modo di scrivere e mi propose di seguire alcuni loro eventi. Il blog è stata una vetrina per dire al mondo che sapevo fare lo story telling che oggi tutti cercano».

279178070 2043010825881677 4455019671097628612 NLa vendita dei diritti le ha cambiato la vita economicamente?
«Non sono una persona che ha grandi ambizioni di spese. Diciamo che li ho messi da parte e sono una garanzia in caso qualcosa vada male».

Com’è stato il lavoro con la casa di produzione per la fiction?
«Mi hanno coinvolto per la stesura del soggetto. È stato bello lavorare con gente che credeva nel progetto, che sapeva fare televisioni e che ha portato avanti il lavoro nonostante inizialmente la Rai non fosse pienamente convinta. Nel frattempo io ho buttato giù anche un’altra idea per un’altra serie che sto proponendo».

Si tiene ai margini dei social, ma ha tre figlie adolescenti: loro ci sono sui social?
«Nel 2016 ci siamo trasferite da Brisighella a Rimini. Fino a quel momento in casa non avevamo tv e internet, io per postare gli articoli sul blog andavo a collegarmi al wifi del bar di Fognano. Oggi ovviamente le mie figlie sono sui social come tutti gli adolescenti. E mi hanno bloccata. Quindi non so esattamente cosa pubblicano. Fino all’arrivo della pandemia avevo un minimo controllo con i filtri sui loro telefoni, poi online è arrivata anche la scuola e ho dovuto arrendermi».

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