Il Dante Pop del Mar in un lungo percorso tra eccessi e ingenuità

 

Mar Pop“Un Dante non pedante” è il primo titolo negli interventi al catalogo in accompagnamento alla mostra allestita al Mar (ultimi giorni di apertura venerdì 7 e sabato 8 dalle 9 alle 18 e domenica 9 gennaio dalle 10 alle 19) e dedicata alla versione Pop(ular) dell’iconografia di Dante attraverso il tempo.

Purtroppo il titolo getta un’ombra di presagio alla mostra perché la sensazione con cui si esce dalle sale è di indubbia spossatezza: quella che viene dopo aver visto troppo e tanto. Marchi, brand, macchine da scrivere, etichette per lassativi e olio da cucina, figurine e rebus enigmistici, calendarietti e trasmissioni televisive, illustrazioni d’autore – da quelle ottocentesche di Doré, poi rifotografate da Literverger, poi ripubblicate in formato cartolina dalla Cassel and Co. – e film a tema o di ispirazione dantesca, vignette satiriche e fumetti, pubblicità e progetti per giochi, giochi da tavolo, videogiochi, giochi televisivi, il tutto tenuto insieme dalla effigie seria, satirica o grottesca di Dante e dei personaggi della sua Commedia in una moltitudine variegata di formati, colori, supporti e stili.

Epopea PopUna parte del pubblico ha sicuramente apprezzato l’iniziativa vivendo l’esposizione come un flashback temporale attraverso gli oggetti della propria infanzia o come una risposta alla propria passione collezionistica. Ma c’è una parte del pubblico che è uscita dalla mostra frastornata e un po’ perplessa: nulla da dire sulla vastità, serietà e professionalità con cui è stata condotta la ricerca sull’iconografia di Dante da fine Ottocento ad oggi condotta da Giuseppe Antonelli, affermato docente di linguistica italiana, e dal suo staff. Ma purtroppo il lavoro di ricerca a fini scientifici deve essere adattato a quelli espositivi che non puntano quasi mai sulla quantità ma sul senso e sull’economia di scelte.

In questa mostra c’è un errore d’origine – l’oversize di fondo – che costringe a chiedersi se fosse valsa la pena di ridurre sezioni e oggetti. Una mostra su Dante non è certo una sfida da poco ma va considerata l’aggravante contestuale della nostra era postdigitale: “la furia delle immagini” – per rubare il titolo a Joan Fontcuberta, uno dei massimi esperti di comunicazione e di fotografia – mette a dura prova il lavoro di chi opera nel campo delle immagini e delle esposizioni.

Edoardo Tresoldi Sacral MarLa scelta di inframezzare i gironi espositivi pop con opere di arte contemporanea – nelle sezioni curate da Giorgia Salerno, attuale responsabile conservatrice del Mar – è stata un’intenzione lodevole e in alcuni casi di efficacia, soprattutto quando l’allestimento ha permesso ai lavori di avere il giusto respiro e quando la scelta ha preferito evitare collegamenti didascalici alle figure, personificazioni e metafore di Dante.

Ottima la scelta e l’allestimento del lavoro di Richard Long come metafora del viaggio; più contestabile invece l’installazione Sacral di Edoardo Tresoldi che nonostante sia un bel lavoro (soprattutto di sera quando è illuminato) salda con difficoltà la funzione di rappresentare il castello degli spiriti magni nel Limbo della Commedia. Non basta neppure la forma di una stella – stiamo parlando della sempre apprezzabile Stella Acidi di Gilberto Zorio, appartenente alla collezione storica del Mar – per invocare una relazione più che marginale al complesso significato religioso e salvifico dato alla volta stellare dal sommo poeta. Nel lavoro di Zorio del 1982, si portava l’attenzione al valore energetico, alla tensione di un campo di forze chiuso e autosufficiente, ad una comunicazione energetica e non dialettica. Il contesto concettuale del lavoro chiariva come un’immagine tratta dal mito ondeggiasse continuamente fra concetto e forma di cui l’artista sperimentava la distanza, analizzando il cortocircuito esistente fra forma, materiali e costruzione. Per Zorio la scelta della stella si basa non su un’analogia di forma ma quella di valore energetico in essa racchiuso. Sul piano interpretativo storico nulla quindi di più lontano di Stella acidi dalla volta celeste dantesca. Rimane pur sempre la possibilità di un’interpretazione attualizzante del lavoro ma la licenza è permessa se rimette in gioco un senso possibile e attuale di un lavoro, sottoponendosi inevitabilmente al giudizio del pubblico.

Adelai+Cioni+Cinque+pezzi+di+cielo+2021Passando alla sezione dedicata alle figure femminili dove sono inserite le opere di artiste di oggi in relazione alle donne dantesche, “Herstory” – dal titolo di uno dei lavori presentati – risulta allestita in uno spazio ridotto che sembra concretizzare al contrario la marginalità storica femminile. In questo spazio un po’ soffocato ci sono lavori interessanti e storici – fra cui quelli di Kiki Smith, Giosetta Fioroni, Tomaso Binga – ma tutti posti in una relazione troppo semplificata alle figure femminili in Dante. Un esempio: la Beatrice incarnata nella bambina del quartieri bassi di Palermo, ripresa nel 1980 dalla potente fotografia di Letizia Battaglia, si basa su un ossimoro visivo abbastanza ingenuo. Altri accostamenti risultano aleatori, interscambiabili e, proprio per questo, corrono il rischio di abbassare il valore del lavoro di artiste che sono di fama nazionale e internazionale.

Chiudendo in bellezza, va ricordato il bel lavoro di Adelaide Cioni – non a caso uno dei rari o forse l’unico site specific in mostra – che riesce a mantenere un registro metaforico e un’ambiguità che si approssimano con delicatezza alla visione di Dante, senza vincolarne o ridurne la visione ma aggiungendo un’emozione diversa, contemporanea.

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