«L’ideologia gender esiste e porta a forzature nei bambini sull’identità sessuale»

La professoressa Giorgia Brambilla, docente di Morale e Bioetica all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, a Ravenna il 21 febbraio per un convegno promosso da una serie di associazione cattoliche

BrambillaOrganizzata da una serie di associazioni cattoliche, venerdì 21 febbraio alle 21, all’Ostello Galletti Abbiosi a Ravenna, una serata dal titolo “La teoria del gender – attualità e risvolti culturali”. Per capire meglio di cosa si tratti abbiamo parlato con Giorgia Brambilla, docente di Morale e Bioetica all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, che interverrà insieme a Pierluigi Pavone, docente di filosofia dello stesso ateneo.

Dottoressa Brambilla, che cosa si intende per teoria o addirittura ideologia gender? Esiste davvero?
«Si intende un pensiero che nasce dal connubio tra l’ambito filosofico-politico, con autori come Marcus e De Beauvior, quello sessuologo, penso a Kinsey e Money, e quello femminista radicale di Butler e Firestone e che ha portato anche ai cosiddetti “Gender Studies” nelle università, quelli che recentemente sono stati smentiti dal punto di vista metodologico da Dummitt, uno studioso proprio di questa materia. Sostanzialmente secondo questa ideologia viene negata la dimensione sessuata dell’essere umano fin dalla sua costituzione e si vuole dimostrare che la differenza tra uomo e donna è solo determinata da una costruzione sociale. Uso il termine ideologia perché si tratta di una teoria che non è supportata da dati scientifici di alcun tipo, al contrario le neuroscienze stanno sempre più dimostrando che la caratterizzazione sessuata dell’individuo presente fin dalla vita intrauterina riguarda anche il cervello, tanto da poter parlare di cervello maschile e femminile».

Ma tolto l’ambito accademico, in quali situazioni questa cosiddetta ideologia gender potrebbe rappresentare un pericolo? Perché affrontare il tema davanti a un pubblico di famiglie? Vi preoccupano in particolare le scuole, vero?
«Ci sono ambiti, e la scuola è uno di questi, dove per smantellare lo stereotipo del maschile e femminile se ne propone un altro e lo si fa negando l’evidenza del dimorfismo sessuale che non è una costruzione sociale. In particolare nelle scuole c’è un crescendo di progetti, approvati anche dalla Regione, che magari nascono con obiettivi giusti e condivisibili, per esempio combattere la violenza di genere o il bullismo, ma che hanno questa impronta antropologica che nega l’evidenza del dimorfismo sessuale, diventando quindi diseducativi se non dannosi».

Qualche esempio? Anni fa a Ravenna arrivò lo spettacolo Fa’afafine, dove un bambino maschio voleva vestirsi da femmina…
«Questo ne è un esempio; circolano anche libretti di questo tipo per bambini piccoli e si sentono casi di scuole in cui le maestre hanno fatto vestire i bambini da femmine e le bambine da maschio, provocando imbarazzi e forzature. Perché spingere a sperimentare qualcosa che va fuori dall’evidenza del bambino che fin da piccolissimo sa di appartenere a un genere?».

E però penso per esempio a un ragazzino che si scopre omosessuale, uno spettacolo come Fa’afafine non può servire a farlo sentire meno diverso? O a un ragazzino che non si sente a proprio agio nel suo corpo?
«Non mi occupo specificatamente di omosessualità, non credo che nessuno si “scopra” omosessuale e in ogni caso non può accadere prima della pubertà. E una persona che è attratta da persone dello stesso sesso, appartiene comunque a un genere, è maschio o femmina. Diversa è la disforia di genere (il malessere percepito da chi non si riconosce nel proprio sesso, ndr), un tema delicatissimo che va trattato senza banalizzazione. La letteratura scientifica ci mostra che in gran parte dei casi con l’avanzare dell’età si risolve, si tratta di ascoltare e capire il disagio del bambino; dunque, anche favorire il cosiddetto “cambiamento di sesso” mi sembra una forzatura più che la ricerca del bene integrale della persona».

Da Ravenna è partita una petizione per chiedere di abbassare l’età in cui sia possibile assumere i farmaci normalmente utilizzati durante la transizione sessuale anche sulla spinta della vicenda di una ragazzina delle medie che ha avuto rilevanza nazionale…
«Non conosco nei dettagli la vicenda, ma si tratta certamente di una tendenza pericolosa, tanto che sappiamo che ci sono anche tanti casi in cui, dopo aver intrapreso un processo di transizione, la persona vuole tornare alla sua condizione originaria. Ma soprattutto mi chiedo come ragazzini di 11-12 anni possano avere la maturità per intraprendere una scelta di questo tipo e una terapia con notevoli effetti collaterali? Inoltre, dal punto di vista della bioetica c’è l’enorme tema dell’intervento medico sul corpo senza che vi sia una malattia e questo coinvolge il clinico anche dal punto di vista del significato stesso della Medicina, se non addirittura da un punto di vista deontologico».

Lei dice che l’ideologia gender nega le differenze innate tra maschi e femmine, e però sembra difficile negare che ci siano condizionamenti culturali nei ruoli che si affidano a uomini e donne. Penso ai tanti libri di scuola dove ancora si vede la mamma che cucina mentre il padre lavora o basta entrare in un negozio di giocattoli…
«Penso che viviamo in una società dove ormai non c’è più troppo la gabbia del ruolo, il bambino ha una visione semplificata e magari anche se sa che mamma è al lavoro mentre lui è a scuola, preferisce pensarla in cucina perché questo lo tranquillizza. Il metodo per parlare di uguaglianza non può essere l’annullamento dell’identità sessuata che c’è ed esiste. Per quanto riguarda i giocattoli, gli studi hanno dimostrato come non sia il giocattolo a fare la differenza, ma il modo di giocare. Le attitudini genere specifiche al gioco sono innate. Basta vedere come i bambini giocano con oggetti che non sono propriamente giocattoli: con essi esprimeranno il loro essere maschi o femmine in modo naturale e non orientato dall’adulto».

Lei dice che non c’è la gabbia dei ruoli eppure proprio alla cultura maschilista e patriarcale dominante vengono imputati tanti femminicidi. Lei condivide questa analisi piuttosto diffusa? E come si dovrebbe intervenire?
«Io penso che in generale bisogna lavorare con il bambino su un altro piano, non di genere, ma sulla gestione della propria aggressività e della frustrazione, aiutarlo a e mentalizzare i propri istinti, cosa che avviene sempre meno. Nella nostra generazione (Brambilla è del 1981, ndr) non c’è uno svilimento della donna, che anzi ha grande considerazione».

Quindi per lei la parola “femminicidio” non ha ragione di esistere?
«Credo che possa forse servire a descrivere qualche caso, ma in generale parlerei appunto di violenza in senso più ampio a partire da una visione svilente dell’essere umano più ampia. E mi preoccuperei soprattutto del livello di aggressività di tanti messaggi a cui sono esposti i bambini soprattutto tramite la tecnologia (TV, videogiochi..)».

Nella visione che voi proponete basata sulle differenze di sesso, come si colloca la famiglia omogenitoriale?
«Ogni bambino, qualunque sia il nucleo in cui vive, ha una madre e un padre biologico e penso sia importante per un bambino interfacciarsi con la sua mamma e con il suo papà, ossia con il simile e con il differente, per la strutturazione della sua identità. Quando si dice che ci sono “due mamme”, si sta negando l’evidenza, la mamma è una soltanto e il bambino ha necessità di confrontarsi anche con il papà. E anche quando sento gli slogan che dicono “Solo l’amore conta”, penso che invece l’amore sia carico di responsabilità personali e non può prescindere dal dato di realtà».

Giorgia Brambilla sarà tra i relatori anche del convegno “Il vivere e il morire. La dignità e i diritti” sul tema del fine vita e in particolare sulla legge 219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento. A organizzare l’evento – in programma sabato 22 febbraio dalle 9 al cinema Corso di via di Roma, a Ravenna – sono il Movimento per la Vita di Ravenna, Scienze e Vita Ravenna, Associazione Culturale San Michele Arcangelo, Comitato Verità e Vita e il Centro di Aiuto alla Vita di Ravenna-Cervia. Oltre a Brambilla interverranno Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra, Giacomo Rocchi, magistrato, consigliere della Suprema Corte di Cassazione e Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo metropolita di Ravenna-Cervia. Modererà l’incontro la giornalista Raffaella Frullone.

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