«Autonomia differenziata e premierato, un pericolo per la democrazia»

Venerdì scorso (22 marzo) alla sala Buzzi di Ravenna il comitato per il Ritiro dell’Autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti della provincia e il Partito della Rifondazione Comunista hanno invitato Gianluigi Pegolo della direzione nazionale di Prc e Domenico Gallo, già presidente di una sezione della Corte di Cassazione e componente dell’esecutivo del coordinamento per la Democrazia Costituzionale, a un evento pubblico di approfondimento sulle ragioni del “no al Premierato e all’autonomia differenziata”. Sono inoltre intervenuti i rappresentanti di Cgil, Arci, Anpi, Consulta Antifascista e Comitato in difesa della Costituzione.

Incontro Sala Buzzi

Riceviamo e pubblichiamo un report della serata dall’attivista Marina Mannucci.

I temi riguardanti il Disegno di Legge n. 615 relativo alle “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” sono stati affrontati da Gianluigi Pegolo. Il progetto di legge che si è soliti chiamare con il nome del ministro proponente Roberto Calderoli, dopo aver proseguito il suo iter in Commissione Affari Costituzionali (che ha approvato circa 80 emendamenti), nel mese di gennaio scorso è stato approvato dal Senato della Repubblica. Ora il ddl è passato alla Camera per la seconda lettura. Nel corso della serata è stato chiarito che il suddetto ddl definisce le procedure per l’attuazione delle richieste di autonomia delle Regioni e che tali procedure non prevedono un intervento di merito del Parlamento, le cui commissioni possono solo esprimere un atto di indirizzo. Le Camere, infatti, approvano o respingono la legge di recepimento dell’intesa avvenuta tra lo Stato e la Regione interessata, senza poter intervenire nel merito dell’accordo. Materie rilevanti per la vita di cittadine/i vengono, perciò, sottratte al controllo di chi le/li rappresenta. Il ddl stabilisce, inoltre, che tali intese possono essere attuate solo dopo la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da garantire a tutte/i le/i cittadine/i e il cui finanziamento va concordato da un’apposita commissione paritetica Stato-Regione. Il testo del progetto di legge prevede nel contempo che dalle intese non debbano derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica: ciò significa che saranno bilancio e risorse disponibili a determinare i Lep, in contrasto anche con la sentenza n. 275/2016 della Corte Costituzionale che sancisce, al contrario, che deve essere «la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». Se già oggi esistono considerevoli differenze di spesa pubblica tra Nord e Sud del Paese, ne consegue che, senza investimenti economici nelle regioni svantaggiate, il divario sociale e territoriale tenderà ad aumentare. Una frammentazione che esporrebbe la legge e le intese al rischio di incostituzionalità in quanto in contrasto con i principi valoriali dell’art. 2 (adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), dell’art. 3 (uguaglianza dei cittadini) e dell’art. 5 (la Repubblica una e indivisibile). Il Comitato NO Autonomia Differenziata Emilia-Romagna, nel mese di febbraio, ha consegnato a Bologna presso la sede della Regione Emilia-Romagna, 6.000 firme raccolte a sostegno della proposta di Legge d’Iniziativa Popolare (Lip) per il ritiro della richiesta dell’autonomia differenziata avanzata dal Presidente Bonaccini, affinché Presidente e Assemblea Legislativa colgano quest’occasione per rivedere la scelta autonomista, che non ha nulla a che fare con il regionalismo sancito dalla Costituzione.

A seguire, Domenico Gallo ha esposto gli elementi di pericolosità della riforma del premierato che, abbinata all’autonomia differenziata, costituirebbe un binomio letale per le istituzioni, portando a una drastica riduzione degli spazi di democrazia e delle garanzie di salvaguardia. Il sistema di pesi e contrappesi che le/i costituenti, memori dell’esperienza fascista, avevano delineato per scongiurare il pericolo della dittatura della maggioranza, verrebbe profondamente squilibrato dal nuovo modello istituzionale che persegue la concentrazione dei poteri nelle mani del capo dell’esecutivo, a scapito del Parlamento e delle istituzioni di garanzia. La combinazione di elezione diretta e premio di maggioranza blinda, infatti, il governo, svuotando di significato il principio del controllo da parte del Parlamento attraverso l’istituto della fiducia, in quanto il Parlamento deve dare la fiducia al Governo. In caso contrario il Parlamento viene sciolto. Caratteristica del sistema parlamentare è che tutto ruoti intorno al rapporto di fiducia, ma, in questo caso, si garantirebbe forzosamente al Capo del governo il 55% dei parlamentari sempre dalla sua parte, svuotando la fiducia di significato, alla stregua di un vuoto rito parlamentare. La nomina del Presidente del Consiglio e lo scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica sono poteri che attengono a una importante funzione di mediazione fra le forze politiche, che fanno assumere al Presidente un ruolo di arbitro, indispensabile per moderare i conflitti politici ed evitare che possano degenerare.

Se questi progetti andranno avanti, le istituzioni di garanzia formalmente resteranno in piedi ma saranno addomesticate, la Repubblica non sarà più fondata sulla Costituzione nata dalla Resistenza di impronta antifascista ma si avvicinerà sempre più a modelli di autocrazia elettiva, che esce dai confini della democrazia. Mi auguro interessi a poche/i cittadine/i, sostenere architetture costituzionali così poco coerenti e sgrammaticate.

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